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 Di Antonio Boscato

 

 

“Come stai?” Mi chiede stamattina il mio amico Franco nel nostro incontro settimanale al bar. Si aspetta una risposta del tipo: “bene, male, meglio di ieri, così così…”. Se gli volessi spiegare il mio stare in dettaglio, il cappuccino si raffredderà. “Sono (sto) in attesa” mi viene invece da rispondergli di getto.

 “Chi/cosa stai aspettando?” Riprende Franco. “Sto aspettando te”, vorrei dirgli, ma sei già arrivato quindi… Il mio aspettarti appartiene perciò al passato (ti ho aspettato per un quarto d’ora, ti aspetto da un quarto d’ora - già sempre il solito ritardatario!…), ma ora finalmente la mia attesa è conclusa.

Devo chiarire chi/cosa sto aspettando. Aspettando di passare il tempo? No, questa proprio non è l’attesa che intendevo io.

Sono portato a pensare che “stare in attesa” è la condizione che accompagna più di frequente la nostra condizione umana, anche se non sempre ne siamo consapevoli,  A pensarci, il verbo “aspettare” è quello che più accompagna la nostra giornata e segna le nostra azioni quotidiane nel loro susseguirsi, tuttavia devo completare la mia attesa con l’indicazione esatta di ciò che sto attendendo.  Solo quando sono concentrato su un compito non penso a quello che devo fare dopo ma, appena concluso, subito alla mia mente si affaccia il pensiero: “ho finito, cosa devo/posso fare adesso?” Il passare successivo non sempre avviene come scelta. Capita che, finita una cosa, si passi a qualcos’altro magari tendendo a ripetere delle abitudini: “cosa faccio ora? Mah, quello che faccio sempre”. Le azioni nel quotidiano sono molto spesso pre organizzate e non richiedono riflessione o decisione.

Ma aspettare è molto di più di quello che mi accingo a fare. Quali sono le qualità che accompagnano l’attesa? Desidero andare più in profondità sull’argomento che ho posto come titolo a questo contributo riflettendo quanto essa diventi una dimensione importante del nostro “esistere”. 

Il verbo attendere ha in sé una grande ampiezza di significati. Accompagna veramente e caratterizza in profondità tutta la vita. Lo dice già l’origine latina del nome e del verbo “tendere a…”: essere attratto, avere desiderio, progetto, energia per uno scopo. Sappiamo che viviamo in una nostra condizione quasi mai definitiva, sempre provvisoria; “siamo provvisoriamente” qui, ma siamo pure consapevoli che ogni giorno siamo in cammino verso “un altro”.

Lo studente si rende conto che la frequenza della sua scuola è un “tempo” dove lui “sta qui ora” ma è “già oltre”  e infatti comincia a pensare alla scuola successiva.. Anche chi entra nel mondo del lavoro non lo vede come comprensivo di tutto il ciclo lavorativo della sua vita ma pensa, progetta, che potrà cambiare per una posizione migliore. Quando si avvicina l’età della pensione chiunque immagina come reinventarsi dopo… Quando ci si sposa, si prende un impegno di vivere insieme nel bene e nel male per tutta la vita, ma siamo sinceri?

L’attesa è il tempo della preparazione.  Noi siamo stati attesi… quasi sempre per scelta, con gioia e desiderio ma anche con ansia, paura, incertezza… tutti i sentimenti di attesa dei genitori che hanno accompagnato il nostro “giungere”, “esserci” ed è probabile che tali sentimenti abbiano avuto qualche influenza su di noi anche prima della nascita.

Noi quindi partiamo già attesi ma il nostro vivere è un susseguirsi di attese e andiamo aventi nel nostro cammino con gli stessi sentimenti che hanno accompagnato il nostro essere attesi: speranza, desiderio, incertezza, timore… e adoperando tutte le nostre facoltà  passando così, più o meno consapevolmente, da una attesa a un’altra. Ogni successiva è attivata dalla qualità dell’attesa precedente.

Ogni nostra attesa si conclude con l’inizio con una successiva (cosa devo fare/fare ora, cosa mi aspetta?). Essa poi ha una durata, si svolge cioè nel tempo. Azzardo a dire che “ tutto il tempo della nostra vita è un insieme di durate”. In ogni “durata” noi intanto diveniamo ci trasformiamo e ci prepariamo. L’attesa abbraccia il tempo della nostra vita e la qualità delle attese diventa la qualità del nostro vivere.  

Ogni attesa va verso una naturale conclusione.  Succede che un’attesa invece di concludersi con il suo completamento atteso si interrompe bruscamente (quello che di solito si denomina come incidente di percorso). Ciò che è atteso, non arriva più e allora bisogna cominciare a costruire nuovi progetti, a immaginare un nuovo e a prepararsi a questo. È il momento della crisi. Solo gli incoscienti possono immaginarsi un “loro” vivere senza crisi.

Prendere coscienza che una fase, un tempo è concluso e che è il momento di passare ad altro è sempre un momento di crisi. Al termine crisi solitamente assegnamo un valore negativo e invece potenzilmente è il vero momento di crescita. La crisi infine si acutizza proprio nel momento in cui si prende coscienza che le attese si stanno riducendo, è finito il tempo di “pensare a cosa fare dopo” e bisogna (cosa molto difficile) costruire come dare qualità e significato a quella che probabilmente diventa l’ultima attesa. È il compito che attende noi (più o meno molto) anziani: dare senso all’ultima attesa.

Però lo confesso, non lo trovo un compito facile, anche se validi autori, famosi, classici o meno, hanno scritto apprezzati trattati “De senectute”.

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