di Federico Maria Fiorin
Non ci possono lasciare indifferenti le immagini del massacro in atto nella Striscia di Gaza. Dopo la carneficina perpetrata da Hamas il 7 ottobre del 2023 ai danni di 1200 tra civili e militari israeliani, era prevedibile una ritorsione di Israele, ma quello che sta accadendo ora nella Striscia di Gaza va contro ogni più drammatica previsione. La crudeltà con cui l’esercito israeliano sta colpendo la popolazione civile palestinese (siamo giunti a 60mila morti, di cui 16mila bambini) non può più rientrare nel perimetro della guerra giusta, ma sembra invece rivestire i connotati di uno sterminio di massa, molto prossimo al genocidio.
Le conseguenze di questi crimini portano avanti nel tempo della storia la possibilità di trovare un punto di accordo, ma soprattutto rischiano di alimentare episodi di antisemitismo ai danni del popolo ebraico, facendo drammaticamente retrocedere nel tempo le lancette della storia. Chiedersi se possa esistere un limite invalicabile, un confine, nelle azioni di guerra può sembrare un ossimoro, ma certamente affamare donne, vecchi e bambini, bombardare scuole e ospedali, sparare contro la popolazione in fila per un pezzo di pane non trova nessuna umana giustificazione.
Dal Salmo 23 del buon pastore (Anche se andassi nella valle oscura non temerei alcun male perché Tu sei sempre con me; il Tuo bastone e il Tuo supporto, mi confortano) è stata tratta una delle canzoni più belle e struggenti della tradizione ebraica, Gam Gam, che ripropone l’idea del turbamento quale tratto distintivo del risveglio morale.
L’essere turbati non manifesta una debolezza, ma al contrario esprime una forma di forza contro gli strumenti di disumanizzazione della vita, come è accaduto nei campi di sterminio nazisti, e come sta accadendo oggi a Gaza, in Ucraina, in Sudan, solo per citare i teatri di guerra più conosciuti.
Essere umani significa quindi essere turbati. E il turbamento porta ad una reazione che si traduce in protesta. Gli esseri umani non sono statistici, ma al contrario sono bambini che cercano le braccia delle madri, padri che cercano di proteggere i figli, anziani che tendono la mano per un po' di cibo. La stessa pietas va rivolta agli ostaggi israeliani ancora nelle mani dei terroristi di Hamas, e per i quali la loro prigionia è diventata il riflesso della nostra indifferenza.
La prima forma di crudeltà inizia proprio dall’indifferenza. Nel mondo ogni minuto undici bambini muoiono di fame; ogni sera un miliardo di persone va a letto senza aver cenato. Quando è stata l’ultima volta che abbiamo patito la fame? Per noi occidentali la fame è un concetto astratto, ma c’è una grossa parte del mondo che questi problemi li affronta ogni giorno. Un bimbo che piange perché ha fame, o una madre che finge di aver mangiato per lasciare al figlio il suo cucchiaio di riso, dovrebbero rappresentare per noi una vergogna e uno scandalo, perché le ingiustizie del mondo non iniziano con la brutalità, ma con l’indifferenza.
Il rischio più grande di questa nostra epoca è racchiuso nel fatto di non essere più capaci di esprimere indignazione. Ci limitiamo spesso a dire “è un’ingiustizia”, “è una tragedia”, desiderosi di voltare pagina e pensare ad altro. Questo accade soprattutto in quella parte del mondo che vive nel benessere e nell’abbondanza, non perché il benessere sia intrinsecamente sbagliato, ma perché spesso genera dimenticanza e indifferenza.
Nel Talmud c’è un insegnamento che dice: “se qualcuno può protestare per i peccati del mondo e non lo fa, è responsabile dei peccati del mondo”. Anche la chiesa cattolica ha posto una forte attenzione a quella che Papa Francesco chiamava “la cultura dell’incontro”, ovvero la disponibilità a prestare una reale attenzione per coloro che sono scartati, riconoscendoli non come un peso ma come uno specchio. L’indifferenza si combatte non con le statistiche ma con i volti, i nomi, le storie.
Guardare la sofferenza vuol dire prestare attenzione all’uomo che dorme sulla panchina avvolto da cartoni e stracci, al bambino che mangia solo a scuola e per il quale il tempo delle vacanze estive è la stagione della fame, all’immigrato le cui qualifiche professionali non vengono riconosciute. C’è sempre più bisogno di un sussulto etico delle coscienze;
Hannah Arendt ne “La banalità del male” ci ricordava che i traumi dei totalitarismi hanno assunto spesso la forma della banalità non dei mostri ma dei funzionari: persone che seguivano le regole, spuntavano caselle, non alzavano mai la voce. Eppure il loro silenzio ha contribuito alla morte di massa: è successo, può succedere di nuovo.
Bene hanno fatto dunque nei giorni scorsi molti cittadini valdagnesi, e il Comune come istituzione, ad aderire all’iniziativa di solidarietà con la popolazione di Gaza, una forma di protesta non rumorosa ma empatica, capace di richiamare l’attenzione di fronte all’umanità che grida. Allo stesso tempo un popolo che ha sofferto le atrocità della Shoah deve riuscire a recuperare il senso del limite ponendo un freno al cedimento delle coscienze.
Se perde questa occasione rischia di mettersi dalla parte sbagliata della storia, contribuendo alla fine dell’ebraismo, di cui invece il mondo ha bisogno, e con esso alla fine dell’umanità. Federico Maria Fiorin