Il viandante invece, pur avendo una meta (perché altrimenti è uno che non fa un viaggio ma gira a casaccio, un vagabondo, un bighellone), vive il viaggio accettando l’avventura, l’imprevisto, l’ostacolo. Sa che forse alla sera non troverà magari alloggio, ma sa che comunque se la può cavare lo stesso, ha imparato che dalle avventure e dagli imprevisti si possono trarre nuove esperienze.
Altre due importanti differenze nell’atteggiamento le troviamo su come i due diversi modi si mettono di fronte alla “meta”:
Il turista vuole solo arrivare, perciò gli interessa soltanto la “meta”, lo scopo, che si è prefisso. Ad esempio, la vacanza ha inizio solo quando è arrivato in albergo al mare. È come se a uno interessasse soltanto il futuro, quello che lo aspetta.
Il viandante non dimentica la meta, tiene bene a mente dove vuole arrivare, ma valorizza le incertezze e gli imprevisti, le soste inaspettate. Ha in mente il futuro, ma è attento al presente, di quello che sta facendo, di quello che gli capita attorno e come sta vivendo ogni preciso momento. Sa che alla fine, quando arriverà alla meta, sarà molto diverso da come è partito, perché il cammino lo avrà cambiato in profondità. Sa che alla fine il risultato del viaggio dipenderà molto dal ritmo e dall’atteggiamento interiore con cui ha viaggiato, dai frutti delle esperienze.
Che cosa c’è in fondo alla strada? Sono tenuto a decidere per chi o verso quale luogo sto camminando, che cosa mi attende, cosa mi attendo e ciò è alla base anche della scelta del tipo di percorso: assegno, in questo modo, un senso al mio cammino e metto in conto, infine, che, se non sto attento, la strada la posso pure perdere (“…mi ritrovai in una selva oscura / che la diritta via era smarrita”). Che strumenti ho per ritrovare la strada perduta? Non distraendomi troppo, dando il valore giusto ad ogni indicazione, magari, scoprendo e interpretando i “segnali”, le “tracce” lasciati da altri.
(fonte: A. Boscato Rari Nantes, 2021 pag. 7-10