ROBERTO MAZZOLA: ricordi che danno sapore alla vita Stampa
Venerdì 02 Ottobre 2009 15:40

  Roberto Mazzola nasce a Montecchio Maggiore nel 1937 e risiede fino al 1963 nel comune di Recoaro terme a Rovegliana.
  Disegnatore tecnico, è il socio emerito del Corpo Nazionale Soccorso Alpino di Recoaro e socio CAI. È appassionato, oltre che di montagna, di filosofia e teologia avendo conseguito il titolo per l’insegnamento della religione cattolica negli  istituti scolastici.
  Innamorato delle piccole Dolomiti, coltiva anche la passione della poesia a cui dedica molto del tempo libero dal lavoro e dall'attività socioculturali. alcune sue composizioni poetiche anche in dialetto veneto sono state segnalate premiate ripetutamente. Vede  la montagna e la vita con una visione poetica permeata di religiosità semplice e genuina.
  Ha scritto racconti, articoli e monografie pubblicate sulla rivista del CAI, su Le Alpi Venete e sui giornali locali.
  Il testo che qui presentiamo è tratto dal suo libro: “Il bosco delle gane (l'ultima contrà)”  pubblicato nel 1989
 

  Dove nascono i bambini

  -Mamma dove nascono i bambini?-è la domanda che, prima o dopo, ogni bambino rivolge ai genitori. Ora forse non più, ma allora la risposta non poteva che darla la madre.
  La mamma spesso rimanere imbarazzata e cercava la risposta più credibile poiché non si usava dire che era stata lei: c'era ancora un senso del pudore che lo vietava.
  Ma neppure si poteva dire che fosse la cicogna anche perché quel tipo di uccello sulle nostre montagne non si era mai visto. Forse si pensava ad un volatile di pianura, capace di avventurarsi al massimo fino a Valdagno. Ma che si spingesse più in su era poco probabile, oltre che rischioso, dato che avevamo delle fionde micidiali.
  Un volatile che andasse in giro poi a deporre bambini giù per i camini delle case è un po' pericoloso: poteva finire nel caliero della polenta.
  Da queste parti volavano solo le grole e spesso qualche poia, ma queste, per quanto le scrutassimo, non portavano bambini. Piuttosto le vedevamo scendere in picchiata come aerei da caccia per prendersi qualche pulcino che tardava a nascondersi al grido di allarme della chioccia.
  Perciò giungemmo a una conclusione categorica che qualsiasi uccello era da escludere che portasse i neonati. E mia madre avallava questa nostra conclusione, anzi ci dava la sua risposta chiara e precisa, seppure con aria di mistero per renderla più credibile: non è affatto la cicogna, né qualsiasi altra volatile, ma...
  E qui cominciava a girare un po' intorno alla cucina, quasi a vedere se qualche intruso la stesse ascoltando, mentre a bocca aperta aspettavamo con ansia la risposta.
  -Sapete, quel grosso maronaro che si trova nel bosco a cima Spigolo vicino alla mulattiera che porta nella contrada di Retassene? Che i vecchi hanno sempre visto così e intorno al quale voi andate giocando e entrando persino nella sua cavità ? Ebbene, sappiate che tutti di bambini sono nati dei nascono da quel castagno!...
  Di fronte una risposta così esauriente e magica, nessun ragazzo poté obiettare nulla, perché era più che naturale che quel gigante dalle fronde enormi, come produceva dei grossi maroni, potesse benissimo far nascere anche dei bambini.
  Così eravamo soddisfatti e quando passavamo con le pecore e capre, lo guardavamo con molta venerazione rispetto. La Giorgina poi di soppiatto andava dalle questo a sbirciare nell'ampia cavità per vedere da dove cavolo sono uscire i ricci che dovevano contenere i bambini.
  Questo castagno era la meta preferita per i nostri giochi: ci arrampicavamo lungo il tronco come scimmie, calandoci poi all'interno del cavo tronco, oppure lunghi suoi rami che toccavano quasi il suolo. Uno dietro l'altro ci rincorrevamo sui rami, che con il nostro peso si abbassavano ulteriormente, permettendoci di saltare a terra, con una naturalezza e un'indifferenza che farebbero rizzare i capelli a una mamma di oggi.
  Il verde, il bosco, i pascoli erano il nostro humus naturale, come l'acqua dei pesci. La maggior parte del tempo (nel pomeriggio dopo da scuola) lo passavamo accompagnando al pascolo le pecore ma sarebbe più esatto affermare che forse erano loro che non ci perdevano d'occhio, perché eravamo sempre presi dei nostri giochi.
  La zona per i pascoli spaziava sul monte Civillina, salendo la mulattiera che parte dal bosco dele Castegnare e s'inerpica lungo la dorsale est, in un susseguirsi di camminamenti postazioni.
  Si diceva fosse nata come seconda linea di difesa. Sembra che parta dal monte Novegno e che poi salga su questo monte, ridiscendendo nella valle dell'Agno per poi risalire sul monte Spitz proseguendo verso Campetto, Campodavanti nella Valle del Chiampo. Venne costruita dalla I Armata, che operava dallo Stelvio alla Valsugana, in previsione di un nuovo eventuale sfondamento dell'esercito austroungarico.
  sui due versanti della valle si vedevano i riflessi dorati dei campi di frumento e di tante rivette con il fieno e la erdiva. Tutto allora era prezioso e necessario perché tutto proveniva dalla terra e dal bosco e di questi tutti erano coscienti perché tutto serviva ed era necessario per vivere. Non solo i campi erano quindi preziosi, ma anche soprattutto i boschi, poiché davano la legna per l'inverno e molte castagne, chiamate anche "il pane dei poveri". Le mangiavamo in vari modi: cotti in pentola o sul forno in paela; servivano anche come colazione al mattino o a merenda scuola e, infine, nei pascoli.
  Le foglie servivano per fare il letto in letto alle bestie che poi diventava letame e i campi. Nel sottobosco si poteva trovare di tutto: ogni sorta di bacche, da quelli di ginepro ai lamponi, e poi fragole e mirtilli, oltre a tantissimi rigogliosi cespugli di nosele e corgnole.
  A tenere sgombro da mulattiere da erbacce e rovi ci pensavano le molte pecore e capre o le mucche che quasi tutte le famiglie possedevano.
  Nella  mia contrada a quel tempo si allevavano in media dalle 40 alle 60 che, più una quarantina di pecore e qualche capra; oggi ci sono sì e no cinque mucche quattro pecore, tenuta dell'unica famiglia dell’irriducibile montanaro, Jacomo dei Jiacomi.
  Nei vari campicelli non mancavano che i frutti di stagione: mele, pere, nespole, ciliegi, susine, marasche eccetera.
  Le stagioni sembravano susseguirsi con più regolarità e con carattere ben definiti. D'estate il caldo sembrava più secco prolungato; se c'era qualche grandinata la si scongiurava bruciando su di una fogara dell'ulivo benedetto Pasqua. Talvolta la siccità prolungata rischiava di compromettere i raccolti e allora si ricorreva triduo per far cadere la pioggia. Ma “ i pensieri di Dio spesso diversi da quelli degli uomini” e se la pioggia era troppa, ecco subito un altro triduo per farla cessare, ma questo non succedeva mai e il sereno sembrava privilegiare il fondovalle verso Valdagno. Da ciò forse è nato il detto: Recoaro, Valli e Schio xe el pitaro de Dio.
  Non  è per la verità che ci importasse più di tanto, perché, con pioggia o sole, giocavamo sempre. Gli avvenimenti, sopra o sotto le nuvole, non ci interessavano molto; i problemi spesso anche grevi degli adulti, sembrava aggirarsi intorno senza che noi ce ne rendessimo..
  Si era infatti in tempo di guerra con i giovani richiamati alle armi sui vari fronti: Africa, Grecia e Russia….(pag. 46-49)

Ultimo aggiornamento Lunedì 05 Ottobre 2009 20:56