Inaugurazione Cristina Castagna Center e trekking esplorativo nel cuore dell’Hindu Kush
A cura di Sara Storti e Giacomo Peloso
Quando inizia un viaggio? Quando è iniziato il nostro viaggio nell’Hindu kush?
Se cerco di rispondere a questa domanda penso subito all’accoglienza della gente di Gotolti che ci saluta all’entrata del villaggio con canzoni, applausi e il calore dei loro sorrisi. I bambini cantano “Welcome Welcome” e tutti, donne, uomini, giovani e vecchi, ci salutano appena scendiamo dalle jeep. È lì forse che inizia davvero la nostra avventura, tra la gentilezza e la gratitudine di quella gente di montagna. L’inaugurazione del rifugio, intitolato a Cristina Castagna e costruito grazie ai fondi raccolti da Tarcisio Bellò e l’associazione “Montagne e solidarietà”, è un momento davvero emozionante. Sono presenti diverse autorità e il presidente nazionale del CAI Antonio Montani, ma più di tutto è la presenza di tutta la comunità locale a colpirmi.
Finita la festa viene il momento di iniziare a camminare e ad entrare nel vivo del nostro trekking. Obbiettivo del primo giorno: raggiungere il campo base dell’Haiz Peak a quota 3700 m.
Con noi, oltre a Tarcisio, i portatori, i quali sarebbero dovuti partire qualche ora dopo di noi, la guida pachistana Amin, e il gruppo degli “alpinisti”, che avrebbe affrontato la vetta dell’Haiz Peak.
Prima notte: primo imprevisto. I portatori, per un malinteso, si sono fermati ad una quota inferiore e ci ritroviamo senza né sacchi a pelo né tende. Siamo un po’ in crisi sul da farsi, ma ben presto troviamo una soluzione e un piccolo gruppetto scende a prendere almeno qualche tenda e a convincere alcuni portatori a raggiungerci con una piccola parte del materiale.
Mentre aspettiamo ci scaldiamo al calore di un fuoco improvvisato e scopriamo quante stelle possono esserci nel cielo quando sei lontano dalle luci ingombranti delle città.
Dopo una notte un po’ improvvisata quattro per tenda con un solo sacco a pelo, ci concediamo un giorno di riposo e organizziamo al meglio il campo; il giorno successivo accompagniamo gli alpinisti al campo 1, a 4400 m, e li aiutiamo a portare una parte del materiale. Dopo esserci acclimatati per bene, il percorso del trekking ci porta a perdere un po’ di quota e dopo la salita a quota 4400, riscendiamo per passare la notte a Dado Khat.
Il nostro cammino ci permette di entrare in contatto con villaggi estivi di pastori rimasti fermi nel tempo: vivono in case coniche di legno, con qualche capra e fanno essiccare il formaggio al sole su dei graticci in legno. Anche loro sono gentili e ci accolgono con un sorriso e un’offerta di cibo e tè, che però al momento decliniamo. Trascorsa una notte in questo alpeggio d’altri tempi, ripartiamo verso “L’epilobium base camp”, a quota 4000 m, tappa intermedia prima di affrontare l’Amin pass e il ghiacciaio dello Chantar. “L’epilobium base camp” prende il nome dal fiore dell’epilobio, un fiore viola che troviamo ovunque in quel luogo. È un posto fatato. Siamo circondati da vette di 7000 m ancora inesplorate, da rigoli d’acqua e macchie viola di fiori. In lontananza vediamo l’inizio del ghiacciaio fossile, nero e misterioso, simile ad una grande coperta scura.
All’”Epilobium base camp” troviamo su un sasso la scritta “2007”, fatta dal gruppo esplorativo di Franco Brunello (CAI Montecchio), passato di lì quell’anno, e ci rendiamo conto di quanto sia selvaggio questo luogo.
Ai miei occhi il nostro viaggio appare come un trekking davvero avventuroso (lungo il ghiacciaio scopriremo che è anche alquanto “alpinistico”). Ci sentiamo come gli esploratori russi e britannici che ai tempi del “Grande gioco” cercavano di raccogliere importanti informazioni su questi luoghi ancora mai attraversati da europei.
Dopo due notti all’” Epilobium base camp” iniziamo ad affrontare il ghiacciaio e ci prepariamo a raggiungere il punto più alto del nostro trekking: l’Amin pass a 5070 m.
Sarebbe dovuta essere una traversata semplice su ghiaccio fossile, invece il ghiacciaio ci impegnerà tre giorni, tra crepacci infiniti e meteo avverso. Nonostante ciò è la parte del viaggio che preferisco. È emozionante seguire l’evoluzione di quel ghiacciaio dall’inizio alla fine. È un po’ come conoscere qualcuno per più anni e vederne i cambiamenti nel corso della vita: dalla nascita del ghiacciaio nella morena scura e scivolosa, fino alla sua dolce morte nella laguna glaciale disseminata di ice-berg.
Passo la mia prima notte con la tenda sulla neve e, freddolosa come sono, tento ogni stratagemma per concentrarmi, dal cappello in testa, alla borraccia con l’acqua calda sui piedi. Durante la nostra prima notte in ghiacciaio veniamo spesso svegliati da scariche di sassi che cadono dall’alto, per fortuna lontane dal nostro accampamento. Come scopriamo ben presto, ogni fenomeno qui è ingigantito, una valanga quando scende da queste cime di 7000 m ci lascia per un attimo sbigottiti. Quando al secondo giorno di cammino raggiungiamo l’Amin pass a 5070 m, ancora una volta resto senza parole di fronte a tanta grandezza.
Vi arriviamo procedendo in cordata con molta calma e per noi raggiungere quella quota è una grande soddisfazione. Il tempo per il momento è buono e attorno a noi ci sono cime senza nome ricoperte di neve. Dopo qualche foto di rito con i portatori, continuiamo la traversata. Ancora crepacci. Tantissimi. Ad un certo punto un membro della mia cordata finisce dentro un crepaccio facendomi quasi cadere: per fortuna la corda di sicurezza funziona, la sua caduta si arresta e in men che non si dica venti portatori sono pronti a tirarlo su. Anche i portatori baltì procedono legati, anche se la loro attrezzatura è ben più spartana. Li incrociamo spesso e ci superano, legati con un semplice cordino, con addosso delle sneackers che io non userei nemmeno per andare in piazza a Vicenza. Sul ghiaccio loro soffrono un po’ il freddo e infatti, per la notte, scegliamo un posto in ci sia anche della roccia per permettergli di riscaldarsi un po’ di più sotto i teli che utilizzano per dormire.
Passiamo un’ulteriore notte (sempre gelata) intermedia e continuiamo la traversata. Il labirinto di crepacci prosegue e il ghiacciaio sembra un mare senza fine. Camminiamo per 28 km cercando il nostro filo d’Arianna nel labirinto e saltando crepacci come acrobati e alla fine, un po’ stanchini, ci ritroviamo alla conclusione del ghiacciaio: una laguna glaciale. Lì ci accampiamo e proseguiamo in una valle che alterna prati verdeggianti a rocce scure, mi sembra quasi di essere in Scozia.
Veniamo nuovamente colti dal maltempo e inizia a nevicare. Di notte ho la sensazione che la tenda mi stia crollando addosso: è neve. Sono caduti quindici centimetri di neve, tutto attorno a noi è imbiancato e il passo Zyndicaran (4700m) , che dovremmo attraversare, è nascosto sotto una coltre di nebbia. Le condizioni non sono delle migliori e siamo di fronte ad una difficile scelta. Non sappiamo quanta neve possa esserci in cima e non siamo sicuri che tutto il gruppo riesca ad affrontare questo tipo di percorso o si riesca a farlo in sicurezza.
A malincuore scegliamo di rinunciare al passo e di scendere lungo la valle del Broghl, dove verranno a prenderci delle jeep per portarci a Chitral e da lì a Isamabad. Dobbiamo richiedere un permesso speciale ma, per “Rescue reasons”, ci viene concesso. Questo cambio programma in realtà ci porta a scoprire una valle incantata, ricca di vita, con villaggi di pastori e piante, seguendo il corso di un largo fiume. A pochi chilometri da noi il corridoio di Wakan, una piccola strisciolina di Afganistan voluta dal Regno Unito per prevenire un’invasione russa attraverso la Cina quando il Pakistan era ancor parte dell’India e dell’impero britannico Sono pochissimi gli europei che passano da queste parti e ad un certo punto arriva a controllarci anche una guardia armata. Sarà la prima ma non unica volta e nei pressi di Chitral verremo persino scortati da una pattuglia.
Altre sei sei ore di cammino (che avrebbero dovuto essere due secondo la nostra guida pachistana) e giungiamo alle jeep. Ora dobbiamo salutare i nostri portatori, non senza avergli dato una meritata mancia. Mentre assisto al momento alquanto folcloristico del pagamento sorseggiando la mia prima coca cola di quelle due settimane, per me più buona dello champagne, ho un retrogusto agrodolce in bocca (e non è certo la coca-cola).
La nostra avventura è ormai giunta al termine. Salutiamo i portatori, ormai divenuti compagni di cammino, saliamo su diverse jeep e iniziamo il viaggio, shakerato dai sassi ,che ci porterà a Chitral. Dietro di noi si stende la verdeggiante valle del Broghl, attorno a noi misteriose cime senza nome ricoperte di neve che luccicano alla luce del sole.