Di Antonio Boscato
Chi non vorrebbe "viaggiare" quando oggi tante le meravigliose mete, o almeno così presentate, sono alla portata di un numero sempre maggiore di persone? Ma "andare", "vedere", "visitare" non sempre è "viaggiare". Mi riporto al mio precedente testo: "Una strada". Nella mia riflessione sono giunto alla conclusione che noi "viaggiamo" fin dai primi anni di vita, anche senza andare lontano e questo primo viaggiare è il nostro fondamento.
Affermare che si viaggia o si è viaggiato nel “vicino” appare quasi una contraddizione, in quanto viaggiare è sinonimo di andare lontano, incontrare e visitare luoghi non ancora visti con mezzi di spostamento vari, auto, treno, areo... Che significato diamo quindi all’espressione “viaggiare nel vicino”? Viaggiare non ha però solo questo significato strettamente letterale, normalmente noi usiamo il verbo in senso più ampio quando usiamo espressioni come: “viaggiare con la fantasia…, viaggiare nella memoria...”; ci muoviamo con la testa, ma i piedi restano ben piantati dove siamo in quel momento.
E poi chiarisco il secondo termine: vicino. Nell’uso che ne faccio qui non intendo il luogo dove mi trovo occasionalmente per lavoro oppure un tempo più lungo dove ho trascorro o sto trascorrendo un pezzo della mia vita, ma il luogo nel quale sono nato, le persone e i luoghi dove ho trascorso la prima parte della mia vita o anche il luogo dove vivo ora se non mi sono spostato se non occasionalmente. Il vicino è l'ambito familiare, ma anche locale in cui è cresciuta la mia infanzia e la mia fanciullezza. Penso di collocarlo nei primi 10 anni della mia vita.
Vi siete mai chiesti quando ciascuno di noi comincia a viaggiare? Io ho la risposta. Dopo un paio d’anni, o anche prima, usciamo di casa e cominciamo a guardare con una maggiore attenzione a ciò che è attorno a noi, alla nostra casa, alle persone che formano a nostra famiglia, e vediamo la gente e i luoghi. Ecco “guardare” è la nostra prima esplorazione del mondo. si guarda e si è guardati, cioè in qualche modo si è pre-giudicati (o, come direbbe il poeta, “E mira ed è mirata, e in cor s'allegra”). Poi si sa, il mondo non è l’angolo del vicinato, è tanto più grande, magari nel tempo e nello spazio ci allontaneremo sempre di più, ma certamente, il nostro grande viaggio nella vita ha inizio lì.
I nostri primi viaggi e le prime esplorazioni li abbiamo fatto da bambini guidati dai genitori ma pure da soli esplorando prima casa nostra poi l’ambiente attorno e, accanto allo spazio fisico, l'humus naturale umano del nostro territorio. Questo esplorare apprendendo ciò che ci sta attorno è una prima esperienza di conoscenza e di incontro. Ma i ricordi che ancora ritornano sono oggi soltanto viaggi nella memoria venati da nostalgia? Un richiamo a una mitica età dell'oro? No, se questi viaggi sono vissuti anche criticamente nel confronto con l'oggi senza mitizzare o svalutare il presente.
Riconosco in questo “vicino” lo spazio che ha segnato, la mia crescita ed affettività, che quindi ha avuto buona parte nell’indicazione della mia identità. È come dire che sono i luoghi delle mie radici. Viaggiare nel vicino vuol dire allora vivere sempre negli stessi posti ma trovare occasioni per scoprirli, per scoprire le persone e le cose che incontriamo e queste nuove scoperte possono essere portatrici di novità.
Posso spiegare meglio questa mia idea facendo riferimento ai miei primi anni di docente con gli alunni di scuola media. Quando ho iniziato a insegnare lettere nella scuola media alla fine degli anni 60 avevo il compito di portare gli alunni a studiare geografia, a dire il vero materia forse erroneamente un po’ trascurata se posta a confronto con lo spazio dato alle altre due materie assegnatemi italiani e storia.
Il programma era allora strutturato in cicli precisi: nel primo anno si accostavano (studiavano?) le regioni dell’Italia, nel secondo i paesi europei, nel terzo i paesi extraeuropei. Il libro di testo richiedeva soprattutto di memorizzare una serie di informazioni sul territorio, sul tessuto economico, sulle principali città, i principali monumenti di queste. L'insegnante richiedeva l'impegno di memorizzare informazioni sui lunghi anche relativamente vicini, che probabilmente non si sarebbero mai visitati. Ma a me insegnante novello e ben privo di precedenti esperienze mi fu suggerito di iniziare nella classe prima partendo dalla “geografia del vicino”. Io ho capito che voleva dire addestrare gli alunni a guardarsi attorno, anche portandoli fuori dall'edificio, impegnandoli a osservare e, dal guardare, maturare all'osservare, iniziando a estrarre delle conoscenze del proprio territorio.
Il concetto era importante perché si voleva fornire agli alunni alcuni strumenti per conoscere in maniera partecipe e attiva i luoghi nei quali essi si muovevano. L'obiettivo era fornire delle prime competenze per stabilire collegamenti. In questo compito io mi sono trovato nella veste di “guida turistica” e per questo con loro sono ritornato a “viaggiare consapevole” in luoghi che conoscevo da sempre, ma che non potevo di dire di avere sempre “esplorato” in maniera attiva e, consecutivamente, “critica”.
I luoghi in cui li portavo li conoscevo da sempre ma anche oggi, dal momento che sono i luoghi che, ad eccezione del periodo universitario, ho sempre abitato, mi permettono di fare qualche scoperta, la loro rivisitazione nella memoria mi dà qualche consapevolezza nuova.
A distanza di più di mezzo secolo da quella prima esperienza didattica, cosa porto dentro di quei “viaggi guidati” che, beninteso, non si sono esauriti in quell’esercizio didattico? In fondo cosa avrei voluto nelle mie finalità educative che i miei alunni ricordassero e conservassero di quelle ore trascorse a scoprire il “vicino” prima di navigare nelle diverse regioni dell’Italia? Questi miei primi viaggi a quali scoperte mi hanno portato?
Mi rendo conto che tutti i viaggi, ed anche questi, si fanno ma hanno valore se si conservano, si raccontano, si rivivono. Cosa potrei raccontare circa i miei viaggi fatti prima accompagnato e sostenuto, ma poi da solo nel mio territorio, composto di un centro cittadino dove risiedevo, e poi tante contrade, di abitazioni anche isolate, di colline coltivate per lo più a pascolo ma oggi sempre più abbandonate all'avanzare del bosco?
Città o paese?
Vorrei iniziare dicendo che il “centro” (ma anche tutto il resto della città) dove abito ma che è pure il centro valle, mi ha sempre dato un senso di oppressione dal momento che esso è inserito nel punto più stretto della vallata, i due monti che lo contengono in linea d’aria non distano tra loro più di 600 metri. Più a sud la valle si allarga sempre di più dando un senso di maggiore respiro. A nord, invece, è tutta “montagna” ed è quindi sicuramente modo e luoghi diversi di abitare, un sinonimo che indica: vivere. Credo che nel mio passato (ma ora è proprio cambiato?) noi tutti cittadini abbiamo sofferto un senso di isolamento perché uscire dalla valle era scoraggiato anche da una abitudinaria forma di pigrizia e pure da un’unica via di collegamento spesso trafficata; ci bastava stare a Valdagno, non c'era bisogno da andare da un'altra parte.
La macchina in quegli anni ce l'avevano in pochi: i dirigenti della fabbrica, qualche professionista, il medico certamente, ma non molti di più. Il mezzo di trasporto più diffuso era la bicicletta e, infatti, l’azienda aveva costruito proprio di fronte allo stabilimento un “garage” che era destinato soprattutto per le biciclette degli operai. Per la maggior parte della gente già recarsi a Schio presentava qualche difficoltà visto la scarsità dei mezzi pubblici. Andare a Vicenza con il trenino, affettuosamente chiamato “Freccia dell'Agno”, era più facile, ma ci si impiegava almeno un'ora con un mezzo di traporto che non brillava per comfort.
A differenza di mio padre, che da giovane aveva scarpinato per tutte le Piccole Dolomiti, talvolta partendo alla sera del sabato dopo il lavoro per passare tutta la giornata successiva in compagnia nei nostri monti, io ero un ragazzino più portato al pensiero che all’azione (insomma ero pigro) mi limitavo a qualche passeggiata sulle nostre colline che però mi hanno sempre incantato.
Ci sono angoli magici e proprio a due passi dal centro cittadino. Amo la bellissima Val dei Santi, che prende il nome dalla omonima contrada che nel medioevo era un convento di frati dedicato appunto a Tutti i Santi. Lì scorre il torrente Rio che esce dal Calieron, che è, dicono, quasi paragonabile ad una cascata hawaiana e che io più di una volta ho cercato di raggiungere senza mai riuscire ad arrivarci.
Gli stessi luoghi sono oggi in buona parte segnati dall'abbandono e laddove esistevano i pascoli oggi i prati si rinselvatiniscono, soffocati dalle piante infestanti. Nelle passeggiate almeno fino alla mia giovinezza era facile osservare i segni di una economia agricola fiorente e, laddove non esistevano le coltivazioni, i pascoli erano ben tenuti. uelli delle contrade scendevano a lavorare in fabbrica ma poi aggiungevano le risorse del loro terreno, quindi la collina valdagnese era tenuta viva la una economia mista e, quando andando con le zie a trovare le loro amiche in contrada, si tornava a casa sempre con qualcosa in borsa.
Che ricordo ancora che almeno nei primi anni 50 esisteva una stazione termale perfino a Valdagno? Durante le giornate estive mio papà ci portava in passeggiata fino alla contrada Vegri di Campotamaso dove, su una panchina fuori della fonte, si poteva bere la quasi famosa “acqua Felsinea”. Magari era anche l’occasione per fare poi una piccola merenda sul posto e scoprire una contrada quasi in zona collinare.
Ora i ricordi fortunatamente sono ancora vivi e mi riportano alla memoria viaggi in luoghi che non esistono più. Le mie esplorazioni nel vicino hanno creato e mantenuto in me il ricordo di un paese (non sono mai riuscito a considerarlo città, semmai tendo a identificarlo con il leopardiano “Il sabato del Villaggio”) molto vivace, popolato, ricco di movimento con numerosi “Casolini” perché, non ricordo quando, fu certamente diversi anni più tardi che nacque il primo supermercato. Nella nuova città era stata aperta l’Unione Consumo, ma quelli del centro non la frequentavano. Per i giorni di festa il pollo si acquistava direttamente al mercato del venerdì da quelli delle contrade nella piazza dei “Polastri”. Il latte lo trovavi dal “lataro” e dovevi bollirlo subito. Non era certamente latte a lunga conservazione.
Dove ora sorge Piazzale Schio esisteva un grande orto che forniva di vari prodotti le “Cucine economiche”, delle quali si è persa oggi memoria. Alla direzione era preposta una suora del Sacro Cuore e, in teoria, doveva servire come mensa per i poveri, ma sentivo dire dal momento che era molto apprezzato il baccalà del venerdì, si poteva fare l’asporto (altro termine moderno!). Per accedervi bisognava attraversare per mezzo di un ponticello la roggia scoperta che portava l’acqua all’attività del Maglio di Sotto, della quale ancora esistono i ruderi.
In questi negozi del centro si faceva la spesa quotidianamente secondo la necessità dal momento che non c’era il frigorifero per conservare. In centro c'erano le pasticcerie frequentate soprattutto alla domenica e attorno come luoghi di incontro e ristoro le osterie, dove gli uomini nel dopolavoro sostavano per giocare a carte e bere vino. dove noi però da ragazzi non potevamo entrare perché abbondavano le bestemmie e non erano infrequenti casi di ubriachezza. Fare la vasca è una consuetudine che è giunta da noi molti anni dopo, quando sono arrivati numerosi insegnanti meridionali che hanno importato una loro consuetudine. Di certo, la movida non era neppure immaginata.
L’unico ristorante di cui ricordo il nome, ma sicuramente ce n’erano altri (forse Il Savoia di fianco alla Chiesa), dove si andava a festeggiare qualche avvenimento era “alla Rosa” accanto a Piazza Roma. Di alberghi/pensioni ne esistevano diversi, sparsi un po’ qua e là, in Oltreagno c’era il Pasubio hotel di un certo livello sorto al tempo dei Jolly Hotels, ma più popolari Da Marietto in via 7 Martiri, I 2 Mori, che apparteneva alle ACLI e, molto più modesto, I 3 scalini alla fine di via Manin. Montalbieri a Castelvecchio era l’albergo per le ferie di impiegati e dirigenti. Le vacanze in uno dei primi anni delle elementari le trascorsi in un “roccolo”, affittato da mio padre sempre da quelle parti e vedevo con meraviglia passare dei giovani ben bardati a cavallo perché a Montalbieri si faceva anche equitazione. E c'era una vita religiosa intensa e frequentata, con ricorrenti festività. Per noi bambini il momento clou era nella festa del patrono san Clemente in novembre, quando dopo la messa ci affollavamo sotto il campanile per prendere le “nespole” poi negli ultimi anni sostituite dalle caramelle.
Nei giorni festivi alla Messa Grande la gente era chiamata dal suono festoso delle campane che ancora erano maneggiate con perizia dai “campanari”, mentre, di fianco al campanile alla domenica la Bassanese (un cognome, non il nome di provenienza) vendeva le frittelle di riso con la maresina (non ancora dop) o forse anche con la sardela). La gente era solita, dopo una delle tante messe domenicali che si succedevano, ma solo al mattino, sostare a lungo sul sagrato in un momento quasi tradizionale di ritrovo settimanale.
Non c’era traffico neppure sulla strada principale. O meglio, c'era, ma era principalmente composto da biciclette. Lungo la strada principale scendevano e salivano frequenti i grandi camion della Recoaro che portavano in cassette di legno le bottiglie di acqua. Nell’ultimo tratto prima della stazione il treno viaggiava quasi strisciando le case e, talvolta, di ragazzini dell’oratorio mettevamo incoscientemente dei sassi sulle rotaie per poterle vedere pericolosamente frantumate e schizzate dalle ruote.
I nomi delle vie del centro dopo la guerra erano cambiati con titolazioni più risorgimentali. ma questa era avvenuto poco dopo la mia nascita. Sentivo parlare di sviluppo di nuovi quartieri a sud est indicati come gruppo con il nome di “Terre Perdute” (Libia, Zara, Cirenaica...). La città sociale era già stata costruita ma fino al mio trasferimento là era per me una realtà sconosciuta, salvo che per la frequentazione dell’Asilo e delle Scuole elementari. Sentivo dire che la città si stava ingrandendo perché dopo il cimitero stava sorgendo un nuovo gruppo di case popolari a cui veniva attribuito comunemente il nome di “Case Fanfani”. La popolazione aumentava e si attendeva il superamento del numero di trentamila abitanti. Secondo un’opinione comune in popolazione avevamo superato Schio, ma, concedendo che il dato potesse essere vero, era un primato che avremmo perso presto.
C’era una grande dimensione popolare e una vita sociale in particolare nella via Rio caratterizzata da un grande cordialità e magari ci saranno state anche rivalità tipiche del paese, io non potevo conoscerle e quindi avvertivo la semplicità del rapporto umano. Questa caratteristica la persi completamente dopo il mio trasferimento in Oltreagno.
C’era il boom delle nascite? Probabilmente. Ricordo che noi bambini eravamo in tanti e andavamo a scuola in classi rigorosamente divise per sesso (il che avveniva anche per la frequenza al catechismo). Gli alunni delle contrade avevano spesso il loro asilo ma anche la scuola elementare: Castelvecchio, Cerealto, Piana, Campotamaso..., persino la contrada Novella, via via sempre meno frequentate fino a formarsi delle pluriclassi. Di tutte rimane ora solo la scuola di Piana.
Quanto a vita culturale e dei mezzi di istruzione e sano passatempo erano attive le due biblioteche disponibili (il Comune non aveva ancora istituito la propria): la biblioteca parrocchiale a carattere molto popolare faceva ruotare liberi di sana e buona lettura e quella più “letteraria” del Dopolavoro aziendale di cui si servivano soprattutto persone di livello un po’ più elevato. Studenti e scolari per quanto occorreva scolasticamente facevano riferimento a Nello Cinesin un’istituzione con la sua Libreria Buona Stampa che aveva anche a disposizione un buon assortimento di libri, ma nello spirito del negozio “buoni”, oltre a ciò aveva pure una certa quantità di testi religiosi e devozionali. Più aggiornata era invece la libreria della Ita Bevilacqua che era brava a consigliare.
I “contradaioli” (niente a che vedere con quelli della città storiche) scendevano al venerdì per il mercato e alcuni luoghi tra gli anziani o ricordati come il “mercato dei pollastri”(oggi piazza Roma) o “la piazza delle bestie” (invece dell’odierno più classicheggiante “foro boario”) ma che io ricordo come il luogo dove durante i mesi estivi trovavano posto diverse “anguriare”, che possono essere ricordate ora come la preistoria della movida quando era frequente portarsi lì perché alla sera il nonno mi accompagnava a comperare l’anguria che si mangiava sul posto.
Ma c’era la fabbrica (c’è ancora come edificio) ma “La Fabbrica” era molto di più, era una dimensione di vita. Mio nonno vi entrò a 9 anni nel 1879 e ne uscì pensionato nel 1950. Dopo 61 anni di lavoro. Lì, all’interno dei reparti, nascevano amicizie che legavano per tutta la vita famiglie. Chissà, non è del tutto escluso immaginare che forse fidanzamenti e matrimoni nascevano legati anche alla vita di fabbrica. C’erano anche “immigrati”, venivano anche da altre regioni assunti soprattutto come tecnici e dirigenti alla Marzotto.
Alla fine degli anni ’60 arrivarono da fuori anche molti insegnanti in seguito alla istituzione in vallata delle Scuole medie nei vari comuni e che richiedeva molto più personale. Come aspettative di realizzazione professionale dei figli molti genitori aspiravano che potessero entrare in fabbrica, magari prendendo il loro posto in una forma di passaggio generazionale.
Chi ha mai pensato che la parte più vecchia e, in parte, monumentale del nostro cimitero sia pure un viaggio nella storia locale? Ci sono le tombe delle famiglie più importanti della città con l’indicazione della professione e dei servizi che i loro esponenti maggior hanno prestato nella città. Alcune famiglie sono de tutto scomparse, altre sono ancora presenti nel loro discendenti.
Ancora oggi, pur nelle grandi trasformazioni e crescita della città è riconoscibile una precisa zona urbana dove di raccoglievano le case delle famiglie signorili sul corso principale e il quartiere popolare che corre lungo la via Rio. Almeno fino alla fine della seconda guerra mondiale non mi pare che recuperando le foto, Valdagno fosse molto più estesa.
La mia città non ha grandi monumenti storici da presentare a turisti e viaggiatori, pur poggiando le sue radici nel medioevo come feudo dei conti Trissino, ma non manca di storia. Bisogna avere la pazienza di scoprirla in quello che ci passa davanti ogni giorno. Non è che ciò venga subito colto. È con l’esperienza didattica che ho fatto che mi ha permesso di renderla visibile. Con gli alunni abbiamo osservato in alcuni edifici ricreativi della città sociale le sigle del committente (come si faceva una volta con gli edifici importanti) e l’indicazione (solenne) della data in caratteri latini dell’anno di costruzione dell’era fascista.
L’iscrizione sul portale del Duomo di San Clemente riporta le due date di costruzione nel 1777 e di un importante restauro come scioglimento di voto dopo la prima guerra mondiale sono storicamente intriganti. Come è stato possibile che un edificio così imponente sia stato costruito da una comunità che in quegli anni non contava più di 3000 anime dal momento che le varie comunità collinari si riferiva alla propria parrocchia?
Anche se piccolo, posso dire di avere incontrato marginalmente la vita politica. Sentivo dire che Marzotto era liberale, ma che era importante che la Democrazia Cristiana dovesse vincere le elezioni perché ciò avrebbe assicurato la libertà contro la dittatura comunista. Chissà, forse è anche per quello che si avvertiva nella famiglia e nel proprio ambito di riferimento che si sono formati i primi orientamenti “sociopolitici” che hanno poi indirizzato le scelte negli anni successivi.
Rifletto che, prima di approdare ai “veri viaggi”, c’è stato tutto il periodo del “tirocinio”. Ebbero inizio proprio negli anni delle scuole elementari i miei primi “viaggi”. Si usciva fuori a vedere altri luoghi, ma sempre in un ambito strettamente dipendente dal luogo di provenienza.
Posso dire ora che anche per me ci fu il “tempo delle colonie”. Le prime uscite dalla famiglia furono alla colonia Marzotto (che erano due: quella marina e la montana). C’erano i “soggiorni”: noi bambini, figli dei dipendenti della Marzotto, potevamo partecipare durante l’estate a un periodo di villeggiatura al Villaggio al mare di Iesolo o, piuttosto, alla Colonia Alpina del Pian delle Fugazze, entrambe le strutture dirette dalle suore salesiane della Fondazione. Era la prima esperienza di stare lontani da casa per una quindicina di giorni.
Alla “colonia” di Iesolo ci andai solo una volta ed ero molto piccole, ne ho un ricordo vago, a Pian delle Fugazze almeno 3 volte, e, a dire il vero. non ne conservo un bel ricordo: le passeggiate, comandate dalle suore che erano le stesse che guidavano l’asilo, erano (mi sembravano) delle “marce forzate”, chissà, forse la mia avversione al trekking è nata lì, e poi eravamo tutti intruppati per la recita del rosario e non c’era alcun spazio di autonomia, solo giochi rigorosamente etero guidati, cioè imposti.
Ma i viaggi poi alle elementari non finirono lì. Forse, sempre con l’oratorio siamo andati da qualche parte, in qualche santuario. La mia prima gita importante, nel ricordo almeno attorno a sei anni, la feci al passo di Campogrosso. Tutti noi, cantori, chierichetti e “Fanciulli Cattolici”, fummo invitati a una gita-premio con partenza dal vecchio oratorio Pio X. Non c’era l’autobus, ma un camion dentro il quale vennero collocate più file di panche. Gli scossoni erano assicurati anche perché non ricordo se negli ultimi anni ‘40 la strada fosse asfaltata. Probabilmente no.
Alle elementari, in quegli anni, non si usciva dalla scuola neppure, come si fa oggi, per visitare delle fattorie didattiche. C’erano, più che altro, delle adunate di massa nel grande atrio della scuola Manzoni dove, sempre ben divisi tra classi maschili e femminili (ma anche le due ali nelle aule che partivano dal salone centrale segnavano la separazione per i sessi), ci radunava il Direttore per celebrare le ricorrenze nazionali (soprattutto il 24 maggio!) ed era l’unico momento in cui si lasciava l’aula.
Tuttavia non dimentico i viaggi devozionali, alcuni poco più di una passeggiata mattutina. Nel mese di maggio si saliva partendo da casa alla chiesetta di santa Maria di Panisacco. dove sorgeva un castello di un ramo dei feudatari Trissino. Forse quello è stato il primo incontro diretto con la storia. Il santuario più importante per i vicentini era la basilica di Monte Berico. C’era chi nello spirito del pellegrinaggio si recava a piedi camminando per tutta la notte e percorrendo i circa 30 km per assistere alla prima messa del mattino ma per me c’era la tradizione nella prima domenica dei mesi estivi, più agevole e piacevole, quando con il nostro scodinzolante trenino di primo mattino mi recavo con le zie e il nonno a Monte Berico per ascoltare la messa e poi fare la mitica colazione con biscotti savoiardi e cioccolata al Pellegrino. Ma in questo non c'era nulla di eroico.
(fonte A. Boscato Rari Nantes, Mediafactory 2021 pp 15-30)