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Un racconto di Libero Riceputi

C’era gente strana, in albergo, quella sera. Gente brutta e fastidiosamente allegra, mangiava con inconsueta voracità e beveva smodatamente. Per consolare la mia solitudine al tavolo degli insegnanti, mi feci portare un bianco di Custoza. Venni travolto dall'angoscia: avevo la sensazione che stesse per accadere qualcosa di grosso e di irrimediabile e acceleravo lo fine individuale e collettiva bevendoci e mangiandoci sopra. I canti di osteria, che per tanto tempo erano stati la mia poesia, mi risultavano antipatici e mi davano quasi lo nausea.

Dopo aver fatto il pieno me ne andai a letto, ma non riuscii a prendere sonno. In albergo era tutto un andirivieni di gente ubriaca e molesta. Il mangianastri non mi diede una sola nota di allegria e i miei quaderni "poetici" non riuscirono ad aprire la parentesi dell'"amarcord".
Pensai che dovevo riposarmi e che lo mattina dopo i ragazzi della la E di Trissino avevano diritto di fruire della mia freschezza e della mia creatività per imparare qualcosa e per continuare a credere nel loro domani. Il mio presente aveva un valore nella misura in cui riuscivo ad alimentare questa loro fede. Furono questi i pensieri che mi trasportarono nel mondo di Morfeo.
I sogni non furono dei più tranquilli. Tutta la notte dovetti battagliare con animali di ogni specie che mi tendevano tranelli nei luoghi e nei modi più impensati.
La mattina, come al solito, mi svegliai prima del trillo della sveglia, che trovai inspiegabilmente inchiodata sulla mezzanotte. L'interruttore non mi diede lo luce e il rubinetto mi negò l'acqua. Aprii la finestra, ma lo dovetti richiudere in fretta perché un acre odore di chimica mi investì. Gli operai delle stanze vicine non mi confortavano coi rumori del risveglio. La confusione della notte era diventata silenzio di tomba. Renzo non c'era e, ovviamente, non mi preparò il solito cappuccino. Appena uscito dall'albergo trovai nuovo, inquietante silenzio.
Le macchine e i pullman non circolavano; qualche sparuto cristiano correva penosamente e goffamente con lo maschera antigas e qualche altro, sempre con lo maschera, pedalava su bici d'emergenza per raggiungere, probabilmente, il posto di lavoro. Lungo lo via c'erano, disseminate qua e là, tante maschere. Ne raccolsi una a caso e pensai, con tristezza, al periodo della vita militare durante il quale avevo fatto esercitazioni N.B.C. Dovevo raggiungere la scuola ed ero nei pasticci. Tornai in albergo a prelevare la mia "LlBERINA" e diedi un'occhiata all'orologio. Era inchiodato sulla mezzanotte.


Salii sulla bici e mi avviai. La maschera rendeva difficoltosa la respirazione e, senza maschera, era addirittura impossibile respirare; il cielo, invece di schiarirsi, si faceva sempre più tetro e caliginoso e sembrava venato d'inchiostro.
Che mattina disgraziata! Stavo forse sognando? Non stavo sognando affatto, purtroppo! Anche l'orologio di Crocco era fermo sulla mezzanotte e la temperatura non appariva. Sulle case e sulle fabbriche la mano della morte avevo disegnato degli zero colossali, a significare probabilmente lo fine di tutto, il nulla.
A Cornedo, nel superare il ponte sull'Agno, mi venne fatto di guardare in giù, L'acqua non esisteva più e il fiume era un ammasso di barattoli, sacchi di plastica, rifiuti, alghe verdi.
La campagna verso Brogliano, di solito amena e lussureggiante, era una pena. Le viti si erano attorcigliate e seccate intorno ai pali e la terra, giallastra, pullulava di ramarri e di scarafaggi, I contadini, impietriti, guardavano attraverso i vetri delle finestre lo spettacolo desolante.
La piazzetta di Brogliano era un deserto e la successiva campagna un pianto,
Per superare pochi saliscendi dovetti dare fondo a tutte le mie energie. Arrivai finalmente alla discesa su Trissino. Pensando di essere in ritardo, innestai il rapporto più lungo e rischiai di cadere. Diedi le ultime violente pedalate sul piano e giunsi a scuola, Sul piazzale c'erano una ventina di ragazzi con le maschere: erano proprio i miei alunni, ma non mi fecero festa come al solito. Alcuni, anzi, piangevano.
Quando li ebbi accompagnati in classe, ci togliemmo le maschere e proprio i più affezionati cominciarono a rimproverarmi. Avevo cercato di iniettare in loro lo sprint, il gusto della vita, la fiducia nel futuro ma, come tutti gli altri, li avevo ingannati. Avevo sempre fumato, avevo sempre gettato i rifiuti, avevo scaricato nell'aria i gas della mia Gilera, il mio di più non era mai diventato pane del bisognoso, mi ero costruito delle verità di comodo. Insomma, avevo predicato bene e razzolato male.
Cercai di giustificarmi, ma mi mancarono le parole. Mi sentivo in colpa e non riuscivo a far tacere il tarlo che mi rodeva. Dopo avermene dette di tutti i colori, i ragazzi si misero lo maschera e se andarono.


Mi sentii fallito, come uomo e come insegnante. Rimessa lo maschera inforcai nuovamente la bici e, senza più preoccuparmi della scuola, mi diressi verso Arzignano.
La gente, fuori di sé, gettava nel fiume le pellicce e le scarpe di lusso. Qualcuno buttava nel grande immondezzaio addirittura i portafogli e non mancavano i soliti sciacalli che ne facevano incetta.
Tra Arzignano e Chiampo un orribile mostro divorava collane e gioielli e li rivomitava sotto forma di sterco rivoltante. Ne rimasi schifato.
L'istinto mi suggerì di proseguire per Marana. Superata Crespadoro, trovai lungo la strada dei viandanti in pantaloncini, maglietta e scarpe da ginnastica. Il bizzarro sole di quel giorno era appena spuntato dietro Cima Marana e invogliava a salire.
Sul volto della gente cominciavo a rivedere lo gioia. In salita, nonostante la mole, rendevo più del solito. Gettai la maschera e le mie narici bevettero aria pura e salutare. Mi fermai, con altri, da un contadino che aveva appena sfornato il pane: che fragranza e che sapore! Con una goccia d'olio, poi, il pane era un cibo da signori!

Il paesaggio non era più triste e desolato, ma piacevole e accogliente. Dagli alberi pendevano le ciliegie.
Le sorgenti invitavano a dissetarsi. A Marana sembrava esserci il ritrovo di una nuova umanità, pronta a purificarsi e a volersi bene. Vi trovai anche i miei alunni, inclini al perdono e sorridenti.
Bisognava andare in cima al monte: lo avvertii come esigenza imprescindibile dentro di me.
Appoggiai la bici ad un muro e incominciai l'ascesa. I ragazzi mi seguirono alacri e festanti.
L'erta era ripida e lunga, ma l'energia che ci scorreva nelle vene fece il miracolo: arrivammo sulla sommità in tempo relativamente breve.
Luca grondava sudore da ogni parte e Linda aveva la faccia rossa come un papavero. Claudio aveva rimosso la sua noia abituale e Simonetta era ancora scattante come una pulce.
Ci sedemmo sull'erba. Mi accorsi che fra me e i ragazzi il feeling era quello di sempre. Enrico, di solito taciturno e appartato, mi si avvicinò con il vangelo in mano. Lo aprii, cercò lo pagina e me lo porse, pregandomi di leggere ad alta voce. lo ubbidii, senza battere ciglio: "Beati".

 Libero Riceputi romagnolo delle colline di Cesena, è stato insegnante per molti anni nella scuola media di Trissino prima e alla Garbin di Valdagno, prima di ritornare nella sua regione. È poeta e narratore di rara finezza psicologica e grande umanità e con una religiosità sincera quale i “Romagnoli” sanno esprimere, attento ai motivi ecologici che oggi sono molto presenti ma che nel 1989 (anno di pubblicazione del racconto a pubblichiamo già apparso sulla Rivista “Appunti - Vita della Valla dellìAgno”) erano meno “ricercati”. A Valdagno ha pubblicato presso la CEDIV i volumi “Cipolle e spicchi di cielo” e “Rom-agno mio”.