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19 aprile: non un giorno, ma un anno
  Ricordare il 19 aprile 1968 può essere tutto questo, ma va ricordato che non è solo il giorno particolarmente drammatico dell'abbattimento della statua di Gaetano Marzotto e delle devastazioni del quartiere di Oltreagno. È la data più impressionante, ma non la più importante, di una vertenza lunga un anno (dal marzo 1968 al febbraio del 1969) che ha veramente messo in crisi l’esistenza stessa della fabbrica. Tutto quello che è successo, in fondo, si riduce a questo: la reazione delle maestranze (che ha portato al coinvolgimento de Sindacati prima e della Città poi) a un importante passaggio generazionale gestito in maniera sbagliata, si passa in pochi anni da una gestione paternalistica del vecchio Paron a quella unicamente efficientista del figlio Giannino. La nuova dirigenza, da lui designata, intendeva ristrutturare tutta la catena del lavoro, senza tenere in alcun conto una serie di aspetti umani, psicologici, relazionali storicamente radicati, che formavano il quadro da cui non si poteva assolutamente prescindere; essa ha voluto imporre una realtà industriale del tutto estranea a Valdagno. Il momento più drammatico si ebbe nei 30 giorni di occupazione nel febbraio dell'anno successivo (dal 24 gennaio 1969 al 25 febbraio dello stesso anno). Tale occupazione ebbe una eco vastissima in tutta la stampa nazionale ma, soprattutto, da questa vertenza si avviò la netta separazione tra la città e la fabbrica fino ad allora del tutto coincidenti (“Valdagno è Marzotto e Marzotto è Valdagno” era una espressione comunemente usata).
  Cosa è successo dopo?
  Un profondo cambiamento. A partire da quella vertenza cambiarono molto i rapporti di lavoro in Azienda ma, allo stesso tempo, Città e presenza aziendale nella società valdagnese escono fortemente modificate nel loro rapporto; le due realtà si allontanano progressivamente fino ad oggi, quando Marzotto a Valdagno è soltanto un segno della storia della città del secolo scorso (il nome delle strade, la titolazione delle scuole…), ma non più l’unica presenza industriale del territorio, anche se una certa manodopera – ma non più del 10% di quella di 50-60 anni fa - è ancora occupata nelle divisioni del gruppo. Soprattutto, nella grandissima maggioranza della popolazione non c’è più un legame emotivo profondo, forse, ancora presente nella fascia più anziana della popolazione.
  Che cosa è oggi la città?
  Possiamo affermare che, sciolta dallo stretto legame con la fabbrica, la città non ha saputo far maturare quei fermenti che le avrebbero consentito di costruirsi come comunità creativa.
  Quando si pensa con una certa nostalgia a una mitica età dell’oro significa riconoscere che la città non è cresciuta, è rimasta psicologicamente dipendente da qualcuno (il padrone della fabbrica, il deputato locale, il sindaco-manager…). Le risorse disponibili sono state utilizzate per l’abbellimento dell’esistente, non per realizzare (perché non sono mai state nemmeno pensate) iniziative nuove. Le due uniche grandi realizzazioni (traforo e ospedale) sono progetti vecchi di trent’anni fa. Il traforo, la cui realizzazione non è stata accompagnata da una capacità progettuale forte né da una visione nuova dei rapporti di Valdagno con il resto del territorio della provincia e del suo ruolo futuro, non è servito a rompere l’isolamento della città.
  La fase che, dopo gli avvenimenti del 68/69, ha visto crescere ed affermarsi un nuovo gruppo dirigente che ha interpretato con consapevolezza una nuova fase politico-amministrativa restituendo al Comune e alla parte pubblica un ruolo che in precedenza era stato coperto dalla fabbrica, si è troppo presto esaurita e la città, anziché cercare al proprio interno nuove energie ed esprimere direttamente una propria rappresentanza in sede istituzionale, è ritornata alla delega ed ha ricercato nuovamente all’interno della fabbrica (che ormai non c’era più) la soluzione ai propri problemi. È ritornata in auge ed ha acceso nuovi entusiasmi l’idea di una pianificazione dei problemi affidata ad un demiurgo esterno al quale affidare le sorti della città. Questo ha impedito l’emergere e l’affermarsi di una classe dirigente indigena in grado di assumersi le proprie responsabilità e di progettare il futuro della propria città coinvolgendo le varie espressioni della società civile senza delegare ad altri le proprie responsabilità e poteri decisionali in bianco.
   La mancanza di attrattività dei servizi presenti in città, la totale mancanza di strutture ricettive, unitamente all’esodo massiccio dell’élite culturale verso opportunità più appaganti, hanno segnato il declino della città, che economicamente vive di un dignitoso artigianato e che vede un massiccio esodo di gran parte della propria forza lavoro verso centri più dinamici e produttivi. Ben pochi s’impegnano in una attività politica, dal momento che ogni scelta amministrativa viene accolta passivamente senza alcun dibattito, anzi nell’indifferenza della comunità, quando non siano toccati interessi particolari.