di Federico Fiorin
Il tema affrontato dall'autore forse è poco dibattuto ma è di grande importanza dal momento che "costruire e urbanizzare" non si sottrae alla domanda sui valori e sulle conseguenze del "convivere e abitare" nella nostra vita di comunità,
È possibile definire un’etica nella pianificazione urbanistica? Ovvero quando si autorizza la costruzione di un edificio all’interno di un’area già urbanizzata, quali interrogativi bisogna porsi?
È sufficiente una valutazione di carattere economico sulla capacità di resa di quell’edificio, sia per il comune che autorizza in relazione agli oneri di urbanizzazione che incassa, e sia per l’imprenditore che costruisce in relazione al potenziale valore sul mercato dell’immobile, oppure bisogna domandarsi anche quale impatto sociale produce quel nuovo edificio in termini di trasformazione del territorio e di vivibilità dello stesso?
Sempre più spesso le nostre città (non mi riferisco solo alle metropoli, ma ahimè anche a realtà ben più piccole come la nostra Valdagno) registrano una sempre più accentuata decadenza dello spazio pubblico, tanto in termini di isolamento sociale, quanto in termini di degrado fisico.
La centralità urbana che fino agli anni Settanta/Ottanta dello scorso secolo era costruita sulle piazze, sulle strade, sui parchi, ha ceduto il passo al sopravvento degli interessi economici che hanno imposto un nuovo modello di città e dei luoghi di aggregazione riferita agli investimenti dei grandi gruppi commerciali e alla conseguente logica del consumo.
Se ci guardiamo un po' attorno, ad iniziare dalle nostre realtà, possiamo facilmente notare come il proliferare di medie e grandi strutture di vendita, non solo abbiano fortemente modificato il tessuto territoriale in cui sono state inserite, ma abbiano anche favorito una urbanizzazione incontrollata nelle aree circostanti che produce in generale un abbassamento della qualità della vita (più traffico, più inquinamento, maggiori pericoli, più emarginazione, più degrado).
L’interrogativo politico, ma per certi versi anche urbanistico, è dunque quello di capire se questa attuale visione del modo di urbanizzare una città, rappresenti realmente una occasione di sviluppo, non solamente economico, ma altresì, se non soprattutto, sociale.
Personalmente credo di no. Ogni città, e al suo interno, ogni quartiere sono caratterizzati da quello che oggi va sotto il nome di “mixité”, cioè persone, famiglie, micro-comunità, diverse tra loro per storia, cultura, tradizioni, disponibilità economiche, intelligenza, spirito di iniziativa, desiderio e volontà di collaborare e di aprirsi al nuovo, disponibilità al rispetto delle regole della comunità; così come è presente anche una parte di persone che sono invece desiderose di rimanere isolate, indifferenti a vivere nella comunità.
Quando si costruisce all’interno di un’area già urbanizzata un nuovo edificio bisognerebbe dunque domandarsi se questo, sia in termini di utilità sia in termini di bellezza estetica, aumenta l’isolamento sociale oppure favorisce nuove forme di integrazione, la mixité sociale per l’appunto.
Una città e una società, lo ricorda Richard Sennett nel suo libro “Costruire e abitare. Etica per la città” (Feltrinelli, 2018), può essere osservata in modo neutrale, così come farebbe un fotografo che immortala la realtà così com’è, senza modificarla; oppure può essere osservata e studiata con l’obiettivo di valorizzarne i propri principi, i propri valori, la propria visione del mondo.
Nell’enciclica “Laudato sì” papa Francesco rivolge una riflessione anche all’urbanistica, sottolineando con una originale definizione la “pesante noia” dell’architettura ripetitiva “delle megastrutture e delle case in serie” (113), che interroga la capacità progettuale nel difficile equilibro tra densità urbana e tutela delle aree verdi. Viene in mente il richiamo alla bellezza che salverà il mondo di Dostoevskij, quella bellezza troppo spesso messa in secondo piano dal ciclo che lega la trasformazione urbanistica al profitto che genera.
Questa logica rischia di abbassare la qualità di molte città e di molti quartieri, dove vediamo sorgere nel cuore vitale di questi, enormi ed anonimi edifici incapaci di ridare valore storico ed estetico all’area stessa in cui vengono realizzati. Ma la città accogliente (152) quella che crea relazioni, che consente il riconoscimento dell’altro e che integra le differenze dovrebbe essere caratterizzata dalla presenza “di spazi che collegano, mettono in relazione”. Al contrario l’edificazione nel cuore di un quartiere di brutti edifici di lusso (brutti nel senso amorale, in quanto lì non ci dovevano stare, ma ci stanno solo per ragioni economiche), sembra riflettere più la preoccupazione della presenza del diverso, che non la volontà di aprirsi alla città, al quartiere.
A questa preoccupazione si risponde realizzando strutture che ingabbiano il proprietario, proiettandolo in una realtà elitaria, che però lo rende avulso e scollegato con la vita quotidiana del quartiere.
In realtà il territorio edificato e lo spazio verde sono sullo stesso piano di interesse, perché ogni volta che la città si espande, occupa e trasforma una porzione di territorio, che ha una sua storia e una sua identità, queste vengono cancellate.
Quindi le operazioni di speculazione edilizia sottraggono al resto della comunità, non solo spazi che si sarebbero potuti valorizzare diversamente, ma anche la memoria storica dei luoghi (se fra quindici, vent’anni dovessimo chiedere ad un giovane valdagnese di indicare il luogo d’intervento, sia esso città, campagna o natura”. dove un tempo veniva conferito e lavorato il latte prodotto dalle vacche che animavano i pascoli intorno a Valdagno, questi probabilmente non saprebbe rispondere, semplicemente perché gli è stata negata la memoria storica collettiva).
Sempre papa Francesco rimarca come “Il principio della subordinazione della proprietà privata alla destinazione universale dei beni e, perciò, il diritto universale al loro uso, è una regola d’oro del comportamento sociale, e il primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale. La tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata” (93).
Questo principio peraltro è ben presente anche nella Costituzione italiana quando, all’articolo 42, si afferma che “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale”. In conclusione mi sentirei di affermare che ogni atto di pianificazione urbanistica deve essere supportato da un criterio etico, ossia una scelta di valore pertinente al modo in cui rendere accettabili certe opere sul territorio. Questo è l’aspetto che è mancato anche nei recenti interventi di urbanizzazione realizzati a Valdagno.
L’architetto svizzero-italiano Luigi Snozzi (1932-2020), affrontando il tema dell’etica in architettura, ebbe modo di affermare: “quando un architetto costruisce una casa su un prato, il primo atto che fa è quello di distruggere i primi 30 – 40 centimetri di terra, l’humus, per posare le fondazioni. Questa porzione di terra è la più feconda della crosta terrestre, da essa l’uomo ricava gran parte dei suoi alimenti. Il problema non sta quindi nel fatto della sua distruzione, ma nel fatto di prendere coscienza di questo atto: qui sta il problema etico. Quindi se un architetto non è in grado di supplire al bene annientato con un bene altrettanto importante, come l’architettura, è meglio che deponga la matita. L’etica, quindi, interviene inogni decisione di progetto, in quanto in ogni progetto l’architetto è costretto a rapportarsi con il luogo d’intervento, sia esso città, campagna o natura”.
Ma se questo è un principio che dovrebbe caratterizzare l’etica dell’architetto, perché lo stesso principio non dovrebbe valere anche per il comune quando rilascia i permessi a costruire?
Federico Maria Fiorin,