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Dal Volume "L'Ontano" Curato da Ottone Menato, Vicenza, 1980 (pag. 444-450) traiamo questo bel racconto di tempi lontami quando da Valdagno Vicenza si viaggiava con la Vaca Mora. L'autore del racconto è  siglato NC.  Il testo è vivacissimo, ricco di spunti e di osservazioni e costumi,  espressione di vita di tempi ormai lontanissimi.

Andata 
Per andare a Vicenza c'era , per chi non aveva Mezzi propri, solamente il tram. Nei vecchi tempi, di sessanta e più anni fa, in cui rinverdiamo queste memorie, nessuno aveva i Mezzi e per andarci era un'avventura, d'estate «almanco male» , ma d'inverno un guaio .

Stazione di Recoaro TermeLa partenza nelle ore piccole del mattino, ancora notte . Notti d'inverno, lunghe, in quell'ora il buio è ancora profondo e più intenso il freddo. Le vie del paese sono deserte, qualche fantasma di donnetta zoccolando frettolosa va in chiesa dove Pegnata, il sacrestano, ha appena aperto; qualche fornaro e un silenzio alto, spettrale.
Ombre vaganti imbacuccate in tabarri, in scialli, scendono dal paese alla stazione lontana, segnata da una tenue luce rossastra che si perde nella notte. Il convoglio tranviario è li, formato, che attende, nero anche lui, quasi da non vedersi se non fosse per la « macchina » in pressione che soffia vapore e acqua calda da tutti i buchi e l'aprire e chiudere del focolare che manda bagliori sinistri. Quelle ombre, quella specie di esseri viventi, sono i viaggiatori. Non vanno subito al tram.
Tanto il tram può aspettare!
Vicino c'è il caffè di Nane Reniero (« Nane Stasion »), fatto apposta, e s'infilano dentro. Si sciolgono dei panni, si liberano momentaneamente dei fagotti. Nane sta al banco con due grosse « cogome » dí caffè caldo.
Chi prende il caffè solo o corretto con la graspa, chi un « cucchetto », un decilitro di graspa, magari fanno il «rasentin », cioè la graspa presa nella chicchera stessa del caffè bevuto. Si conoscono tutti. Valdagno di quei tempi non è mai stato un paese di forestieri. La conversazione è dura da attaccare, sono insonnoliti, le voci rauche, il cervello sta ancora nel letto caldo di casa appena lasciata. Pagano e stanno lì in piedi. La porta si apre di botto: è Ceroni, il capotreno, conducente, bigliettaro e all'occorrente frenatore.
« Signori si parte...! Avanti ndemo, movive fora, quanto ghe vole? ».


No! Non è vero, la colpa è sua, si aspettava lui, è lui che ha tardato, è lui che ha torto.
Cominciano già le proteste; fino Vicenza ce ne saranno delle proteste! A torto o a ragione viaggiatori e clienti d'albergo, di tutti i tempi, protestano sempre, secondo loro c'è sempre qualcosa che non va.
Riprendono i fagotti, fagotti di merce più stravagante, magari qualche pollastro, attraversano il buio e invadono il treno.

La trombetta di Ceroni dà il via, la macchina fischia e la caravella del Tram, cigolando, sballottando scende la strada dei Noni. Ceroni distribuisce i biglietti. Sono nastri di carta, verdi per la prima classe e rossi per la seconda.
Per ogni fermata dieci centimetri di carta; fino a Vicenza è un bigolo lungo un metro e mezzo che vien pieghettato ben ben e infilato tra il nastro del cappello per non perderlo; ad ogni fermata ne staccano il tratto relativo, per controllo, a Vicenza arriva senza niente.
Prima fermata la « Casa Bianchina », un po' prima della Spagnago di adesso, poi Cornedo, la « Molonara », ora Cereda, e tutto fila bene; qualcuno è smontato
e qualcuno è salito. Intanto comincia baluginare, le conversazioni attaccano e in vettura fa un po' caldetto.

E si giunge a Palazzetto. Qui fermata straordinaria e fin che la macchina fa acqua e tira su la pressione si approfitta per andare in trattoria dalla Siora Melia col vin caldo, pan fresco, tanto fresco da essere ancora caldo, soppressa, pancetta, luganeghe, altri generi simili. Scendono. Per prima cosa vanno contro la « passaia » dandosi un gran da fare coi pantaloni, l'inverso di quello che sta facendo la macchina.
Bisogna ristorarsi: un boccone di qualcosa e un bicchiere di « vin de Valle »

Ormai il sonno è passato, gli occhi sono vivi, baffi e baffoni di tanto rispetto guazzati di vino e ganasce in lavoro.

Si chiamano, si offrono il bicchiere, attaccano discorsi; qualcuno sbircia in spazzacucina a cercare la serva. Gli astemi rimasti in vettura cominciano brontolare per il prolungarsi della fermata, ma più per invidia, per contrarietà. Gli astemi, le bocche difficili, gli stitici sono sempre pessimi compagni e guastafeste.

L'ambiente è accogliente, di odore vinoso, col camino coi caregoni e un bel fuoco acceso che spande un caldetto casalingo. Accogliente anche la Siora Melia, accogliente anche la serva diciottenne, la Santina di Gambuian, bianca e rossa, bella fresca come « on boccolo de rosa », prosperosa e tondeggiante, di forme sode.

Quasi, quasi vien voglia di non partire più se non fosse perché c'è l'incontro col tale a Vicenza, con tal'altro da Arzignano, per qualche affare da combinare per cui si porta in regalia un pollastro e poi quei fagotti attaccati alle costole che non ti sai come liberare; e conviene al richiamo trombettiero di Ceroni risalire il tram. Proprio adesso che si sta facendo giorno.

I ragazzi non stanno fermi, cominciano agitarsi, vorrebbero abbassare i vetri dei finestrini, guardare fuori, vogliono fare pissin, proprio adesso che il tram s'è rimesso in moto; le femmine li portano in piattaforma, e lì al vento si innaffiano i calzoncini. Fortuna che non si mettono in testa di fare qualche altra .cosa, che allora se ne vedrebbero di belle. Magari anche pretendere di fermare il tram. « Poareto galo da farla in braghe, ciò! Fermare on fiatin poco costa ».

Gli uomini si raccontano le novità, storie e fatti, grassi e piccanti; attraverso il fumo corre la risata. Le donne sono curiose, godono e ascoltano senza voler parere, ridendo, con gli occhi lustri, coprendosi mezza la faccia col « fazzoletton », per ritrosia, dandosi di gomito, sbirciandosi tra loro. Qualche « fiol d'on can » fa la mano morta con la vicina, l'altra lascia fare, con tanto dondoli() finge di non capire.

Qualche donnetta va a Monte Berico per devozione, per un voto, col rosario in mano biascica orazioni. Le mutrie, gli astemi, sono sempre ringhiosi non va bene niente, specie adesso che dà noia il fumo, l'odore di vino e poi... tutto e tutto che non và. Intanto passa via Trissino, la Ghisa, ecco San Vitale.


San Vitalee... per Arzignano, Chiampo si cambia!
Scendono quasi tutti, anche senza bisogno di cambiare, basta che ci sia un posto da bere. Il posto c'è, c'è anche quella coi marroni caldi e i « peri coti », quella stessa di « bela la ua », « fresca la ua » dell'estate, che fra l'altro, poveretta, è finita sotto il tram vittima del lavoro.
   Quattro maroni o una pera cotta e dentro a bere un bicchiere. Ecco i sensali da Arzignano, dalle Tezze, fasciati stretti nel tabaro col bastone penzoloni al braccio e il cappello tirato sugli occhi.

Su tutti, si riparte! Bisogna riguadagnare il tempo perduto e spicciarsi per Vicenza.

Ormai s'è fatto giorno del tutto, ma persiste la nebbia, ai finestrini il paesaggio brumoso passa lento, soffocato. Può succedere, non raramente, anche, che il convoglio abbia un rabbioso stridore di freni della macchina con fischi. Ceroni corre fuori in piattaforma e da di mano alla « macanìca », il freno a mano di emergenza della carrozza aiutando così quella della macchina e tutto si ferma.
   Grande scompiglio, calano i vetri dei finestrini, tutti si sporgono, si sbilencano fuori, vogliono vedere cosa è successo. Il personale va a vedere, si ode un bisticcio. Non è niente: un carro di letame sbucato da una boaria. I buoi spauriti si sono messi di traverso. Allora il macchinista scende e con quattro briscole, sgombra la via e il tram riparte. I finestrini si richiudono, ognuno si siede, sono un pochino delusi, si aspettavano qualcosa di più, magari un po' di sangue fra le ruote. Si sa, il popolo ama sempre le cose forti (a spese degli altri).

Tavernelle è passato, passato l'Olmo, il bigliettario ritira l'ultimo tagliando di biglietto; questo è il più faticoso, non si trova mai, l'avea qua... L'avea la... no lo cato più! ». Vuota le tasche, vien fuori tutto il bazar.
Ecco la fermata di San Felice. Siamo ormai in città. Alcuni smontano e sbrissiano dentro all'osteria della « Fulvia ». E finalmente s'è arrivati!

Ora succede il contrario di quanto successe in partenza. Tutti hanno fretta di smontare. Tirano giù i fagotti, qualcuno scappa e va finire, proprio, sulla testa d'un bastian contrario che comincia strillare.
Con le gambe intorpidite cominciano per scendere, con l'ingombro dei fagotti, il tabarro scivola dalle spalle, l'altro che segue, lo calpesta, incespica, brontola. Mette giù i fagotti e tira su il tabarro, tira su i fagotti e va giù ancora il tabarro. Siamo ancora in corsia della carrozza e ognuno ha una fretta matta vedendo i precedenti che sono già all'uscita. C'è il pisciatoio, tutti hanno bisogno d'andarci, fanno la coda, par far presto cominciano sbottonarsi prima e poi vanno via a gambe larghe abbotonandosi.
Ora non si conoscono più, ognuno per sè e sfilano in tutte le direzioni.

Ritorno

Al ritorno si capovolgono tutti i fenomeni dell'andata. Sono puntuali, vanno diritti al treno, sono più disciplinati, qualcuno che ha alzato il gomito un po', è in « cerina », ride e fa ridere gli altri. Per prima cosa si raccontano dove sono stati a mangiare, cosa hanno mangiato, bevuto, quanto hanno pagato. Hanno mangiato bene e neanche pagato caro. Sono stati da « Vittorio », al « Cavaletto » in piazza delle Erbe, alla « Rosa », al « Pozzo Rosso », alla « Torre Vecia ». E, naturalmente, per ultimo, non si può lasciare Vicenza senza passare da « Gobbo », dietro il Duomo, da « Crosara », in Piazza Castello, dove tengono sempre quel buon vino nostrano.

Le mutrie, i roversi, sono stati dalla « Pantegana » a San Giacomo, dalla « Cuccarola » a Ponte degli Angeli, hanno mangiato male e pagato caro. Il personale è screanzato. Sono clienti difficili, presuntuosi che battono sui piatti. Non c'è al mondo dispetto più grande per camerieri, come quello di battere sul piatto; è come le si battesse sul...!
   Non prendono vino e il cameriere fa un risolino, poi si volta verso la cucina e chiama ad alta voce: « Un minestrone, senza vino, che il pane ce l'ha lui »! Tutti ridono, l'altro si rode e mostra il dente velenoso.

Il tram arranca allegro. Ceroni non c'è, questa corsa tocca a Crístofoletti, che raccoglie i soldi e dà il nastro. E via con qualche fischietto. Le compagnie « ciacolano », ognuno ha qualcosa da raccontare. Sono stati a vedere le « erbarole », quelle che vendono ortaggi in piazza, pezzi di belle more col cappello di paglia nera di Firenze e la penna di struzzo, con le cotole rialzate puntate con spilli di sicurezza mostrano una spanna di gambe.

Zan, racconta l'avventura successagli. Colta da una occulta necessità corre da Pacina, sotto la Torre. Bei cessi, nuovi, con le piastrelle; come adesso. Una palanca per... consumazione. Zan sta lì a godersi la palanca dopo la consumazione che le capita a tiro una delle sue, coi suoi centoventi chili, con un rumore da vetri rotti; manco farlo apposta nella cabina accanto c'è una mutria che suda e fatica: « Gnanca vergogna! ». E Zan. « Cossa vorlo co na palanca sentire anca la boeme? ». E giù, tutti a ridere spassosamente.

Fuori è buio.
Si passa tortuosamente per la via principale di Montecchio con le botteghe e le case con le luci accese. Fa un bel vedere stando beatamente seduti! Tutti hanno la loro da dire di « Montecio »: che piantano fagioli e nascono ladri, che per non rubarseli, anche fra loro, da furbi, li piantano fondi con la pistola.
Si arriva a San Vitale, dove i treni cambiano, e tanto per cambiare aria si va far visita di cortesia dove vendono vino, sentire anche se l'hanno cambiato. Quanti protesti! I sensali dopo tanti « tira e mola » e schiaffi sulle mani, per contratti fatti, se ne vanno per l'altra strada. Cì sono quelli che tornano da Arzignano, da Chiampo e s'imbarcano nella comitiva; anche costoro aggiungono la loro chiacchiera.

Palazzetto! Qua bisogna andar giù, non li fermerebbe nemmeno il Patto Atlantico. Una riverenza alla « passaia » e dentro dalla Siora Melia. Il fuoco è maestoso, gira l'arrosto coi « osei » e sotto una leccarda grande come una gondola, piena di polenta, anche la cucina « conomica » va a vapore con « pignatte, tece, casserole », un forno grande da mezzo vitello.
Che profumo, quanto ben dì Dio! Com'erano, e come sapevano tessere felici una volta!
Una fettina di polenta con « on'oseleto » o con una luganega e « vin de valle ». I soliti discorsi, le solite « ciacole » con la parona, con gli avventori. Lo scambio dí bicchiere.
Le osterie, gran bella invension; altro che il telegrafo senza fili!


Cosa interessava loro la posta, il telegrafo? Lo scrivere li faceva sudare una camicia. Gli affari si concludevano sempre per bocca, e basta. Carte e firme alla larga, tutta roba che ti porta dagli avvocati.
« Sta meio on sorze in l'oca al gato
che on cristian in man de
on'avocato! ».

Cristofolettí con la trombetta suona la chiamata. Anche la macchina fischia all'occorrenza. Si riparte. Il tram corre, corre la strada, corre il buio, tutto corre veloce (?).
« Corre le rue, corre el paron,
corre la serva, corro anca mi! ».

Via Cornedo, Casa Bianchina e si affronta rabbiosamente di petto la salita dei Nori strepitando e sbuffando scintille. Ce la fà, o non ce la fà? Se ce la fa arriva in stazione sfiatato e si squaglia con un lungo sospiro vaporoso; se non ce la fa rincula e si ferma un po' prima del ponte, a mettere su pressione e poi parte ringhioso alla riscossa.
Ma ci fu una volta che successe un fatto notando. Una sera sul finire di novembre, il convoglio aveva da poco lasciato Palazzetto, che uno schianto orrendo in macchina blocca tutto. Nelle carrozze succede « on repeton » maledetto, gli uni si sbattono contro gli altri, e giù pacchi sulla testa.

Cos'è, cosa non è, tutti corrono. La macchina è di traverso sulle rotaie, coricata di fianco, soffiando come un mostro abbattuto. Il fuochista, nero come uno scarafaggio, con uno stoppaccio acceso, col macchinista, guarda dentro fra le ruote.
Si alzano: « Se ga roto el roncon! ». Nessuno sa cosa sia « el roncon », ma tutti hanno « la sua » da dire.
Un ferro così grosso a rompersi! Ma cos'è, com'è? È quel ferro come un braccio che « para le rode ». Non si potrebbe attaccarlo, magari con del « fin de fero » tanto da arrivare fino a Valdagno. Sì, ma poi chi mette in strada la macchina?
Assediano il povero Cristofoletti: E noialtri cosa femo, dove andemo? Voialtri? Rangève! E il biglietto pagato, e il rimborso? Non si ricevono le lagnanze, l'ufficio è chiuso. Domani mattina presentarsi dal capostazione. I bagagli saranno custoditi e consegnati col prossimo treno successivo. Per adesso niente da fare!
Per darsi da fare tornano tutti al Palazzetto ch'è lì a poche centinaia di metri. Nessuno si fida partire solo. Hanno paura del buio, dei cani, dei fantasmi nella notte, che a quel tempo ci credevano molto.
Per darsi coraggio bevono tutti. Il vino è una gran medicina. Basta leggere le allegre vicende del patriarca Noè.
Ma tutta la notte a Palazzetto non si può stare. Sí decidono a farla a piedi. Fino a Valdagno con un'oretta e mezza se la fa, salvo il beneficio delle fermate obbligatorie.
Partono, non c'è luna, si sprofondano nel buio, seguono la pista della inghiaiatura stradale, che a mala pena si intravvede. Man mano che si prende l'occhio si avanza più sicuri. Qualcuno che all'occorrenza ha bevuto un po' dí più, attacca i bagoli. Si comincia a cantare. Tanto anche se si piange non si rimedia a nulla!
Ridono anche i « bastian », anche se le donne cominciano cantare. Si sente qualche voce d'allarme: Ehi! sior, el diga, su co le man! Senza ferale gnente da fare. Camminano. Caso strano son tutti allegri.
« Da Milan se va a Torin
sempre viajando in caretin.
Amore, amore, amor
la rosa la xe on bel fior! ».


Ecco la « Molonara! ». No, è un'osteria tetra, fumosa, angusta. Avanti! A Cornedo sosta da « Traca ». Altra bella osteria dentro un recinto di cancellata. Ironia del caso proprio dove si ferma il tram!
Sí rimettono in strada, l'allegria aumenta, nessuno è stanco. In quei tempi il camminare era molto usato. Erano comuni le gite a piedi domenicali fino a Castelgomberto, salendo e scendendo i poggi solatii di Cereda, e tornare, sempre a piedi, per lo stradone provinciale; naturalmente con le relative fermate nei « capitei » senza santi. L'allegria e la compagnia fanno più breve la strada.

Si conclude con l'adagio di « Tutto il mal non vien per nocere », senza l'incidente del « repeton » non si sarebbe passata una serata migliore.
I lazzi, le burle, le chiamate s'intrecciano nell'oscurità, nutrite dal « gotin » bevuto.

Tra il lusco e il brusco, tra il tí vedo e non ti vedo, qualche coppia, con gli occhi spasimanti, si saranno leccati qualche bacio. Pazienza! C'è tanto posto fuori da starci anche questi. Si crede, però, con giudizio certo, che più in là non siano andati. Le donne; allora, erano stupidamente oneste. E intanto:
 «Tu, tu el tranvai
La Gondola, el vapore
Tutte figlio Cose ormai
Che han perso OGNI valore.
La ferovia xe Rota
palanche no nè GHI,
Più chi no ga Bessi
GHE Loca farla una torta! ».

E arrivano uno Valdagno. In un battibaleno si sparge la sensazionale notizia «el tran de andà for de strada! ». Robe da Campana martelo!
questa è una storiella del tram rifatta da tempi vissuti, lontani e felici.