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San Vitalee... per Arzignano, Chiampo si cambia!
Scendono quasi tutti, anche senza bisogno di cambiare, basta che ci sia un posto da bere. Il posto c'è, c'è anche quella coi marroni caldi e i « peri coti », quella stessa di « bela la ua », « fresca la ua » dell'estate, che fra l'altro, poveretta, è finita sotto il tram vittima del lavoro.
   Quattro maroni o una pera cotta e dentro a bere un bicchiere. Ecco i sensali da Arzignano, dalle Tezze, fasciati stretti nel tabaro col bastone penzoloni al braccio e il cappello tirato sugli occhi.

Su tutti, si riparte! Bisogna riguadagnare il tempo perduto e spicciarsi per Vicenza.

Ormai s'è fatto giorno del tutto, ma persiste la nebbia, ai finestrini il paesaggio brumoso passa lento, soffocato. Può succedere, non raramente, anche, che il convoglio abbia un rabbioso stridore di freni della macchina con fischi. Ceroni corre fuori in piattaforma e da di mano alla « macanìca », il freno a mano di emergenza della carrozza aiutando così quella della macchina e tutto si ferma.
   Grande scompiglio, calano i vetri dei finestrini, tutti si sporgono, si sbilencano fuori, vogliono vedere cosa è successo. Il personale va a vedere, si ode un bisticcio. Non è niente: un carro di letame sbucato da una boaria. I buoi spauriti si sono messi di traverso. Allora il macchinista scende e con quattro briscole, sgombra la via e il tram riparte. I finestrini si richiudono, ognuno si siede, sono un pochino delusi, si aspettavano qualcosa di più, magari un po' di sangue fra le ruote. Si sa, il popolo ama sempre le cose forti (a spese degli altri).

Tavernelle è passato, passato l'Olmo, il bigliettario ritira l'ultimo tagliando di biglietto; questo è il più faticoso, non si trova mai, l'avea qua... L'avea la... no lo cato più! ». Vuota le tasche, vien fuori tutto il bazar.
Ecco la fermata di San Felice. Siamo ormai in città. Alcuni smontano e sbrissiano dentro all'osteria della « Fulvia ». E finalmente s'è arrivati!

Ora succede il contrario di quanto successe in partenza. Tutti hanno fretta di smontare. Tirano giù i fagotti, qualcuno scappa e va finire, proprio, sulla testa d'un bastian contrario che comincia strillare.
Con le gambe intorpidite cominciano per scendere, con l'ingombro dei fagotti, il tabarro scivola dalle spalle, l'altro che segue, lo calpesta, incespica, brontola. Mette giù i fagotti e tira su il tabarro, tira su i fagotti e va giù ancora il tabarro. Siamo ancora in corsia della carrozza e ognuno ha una fretta matta vedendo i precedenti che sono già all'uscita. C'è il pisciatoio, tutti hanno bisogno d'andarci, fanno la coda, par far presto cominciano sbottonarsi prima e poi vanno via a gambe larghe abbotonandosi.
Ora non si conoscono più, ognuno per sè e sfilano in tutte le direzioni.

Ritorno

Al ritorno si capovolgono tutti i fenomeni dell'andata. Sono puntuali, vanno diritti al treno, sono più disciplinati, qualcuno che ha alzato il gomito un po', è in « cerina », ride e fa ridere gli altri. Per prima cosa si raccontano dove sono stati a mangiare, cosa hanno mangiato, bevuto, quanto hanno pagato. Hanno mangiato bene e neanche pagato caro. Sono stati da « Vittorio », al « Cavaletto » in piazza delle Erbe, alla « Rosa », al « Pozzo Rosso », alla « Torre Vecia ». E, naturalmente, per ultimo, non si può lasciare Vicenza senza passare da « Gobbo », dietro il Duomo, da « Crosara », in Piazza Castello, dove tengono sempre quel buon vino nostrano.

Le mutrie, i roversi, sono stati dalla « Pantegana » a San Giacomo, dalla « Cuccarola » a Ponte degli Angeli, hanno mangiato male e pagato caro. Il personale è screanzato. Sono clienti difficili, presuntuosi che battono sui piatti. Non c'è al mondo dispetto più grande per camerieri, come quello di battere sul piatto; è come le si battesse sul...!
   Non prendono vino e il cameriere fa un risolino, poi si volta verso la cucina e chiama ad alta voce: « Un minestrone, senza vino, che il pane ce l'ha lui »! Tutti ridono, l'altro si rode e mostra il dente velenoso.

Il tram arranca allegro. Ceroni non c'è, questa corsa tocca a Crístofoletti, che raccoglie i soldi e dà il nastro. E via con qualche fischietto. Le compagnie « ciacolano », ognuno ha qualcosa da raccontare. Sono stati a vedere le « erbarole », quelle che vendono ortaggi in piazza, pezzi di belle more col cappello di paglia nera di Firenze e la penna di struzzo, con le cotole rialzate puntate con spilli di sicurezza mostrano una spanna di gambe.

Zan, racconta l'avventura successagli. Colta da una occulta necessità corre da Pacina, sotto la Torre. Bei cessi, nuovi, con le piastrelle; come adesso. Una palanca per... consumazione. Zan sta lì a godersi la palanca dopo la consumazione che le capita a tiro una delle sue, coi suoi centoventi chili, con un rumore da vetri rotti; manco farlo apposta nella cabina accanto c'è una mutria che suda e fatica: « Gnanca vergogna! ». E Zan. « Cossa vorlo co na palanca sentire anca la boeme? ». E giù, tutti a ridere spassosamente.

Fuori è buio.
Si passa tortuosamente per la via principale di Montecchio con le botteghe e le case con le luci accese. Fa un bel vedere stando beatamente seduti! Tutti hanno la loro da dire di « Montecio »: che piantano fagioli e nascono ladri, che per non rubarseli, anche fra loro, da furbi, li piantano fondi con la pistola.
Si arriva a San Vitale, dove i treni cambiano, e tanto per cambiare aria si va far visita di cortesia dove vendono vino, sentire anche se l'hanno cambiato. Quanti protesti! I sensali dopo tanti « tira e mola » e schiaffi sulle mani, per contratti fatti, se ne vanno per l'altra strada. Cì sono quelli che tornano da Arzignano, da Chiampo e s'imbarcano nella comitiva; anche costoro aggiungono la loro chiacchiera.

Palazzetto! Qua bisogna andar giù, non li fermerebbe nemmeno il Patto Atlantico. Una riverenza alla « passaia » e dentro dalla Siora Melia. Il fuoco è maestoso, gira l'arrosto coi « osei » e sotto una leccarda grande come una gondola, piena di polenta, anche la cucina « conomica » va a vapore con « pignatte, tece, casserole », un forno grande da mezzo vitello.
Che profumo, quanto ben dì Dio! Com'erano, e come sapevano tessere felici una volta!
Una fettina di polenta con « on'oseleto » o con una luganega e « vin de valle ». I soliti discorsi, le solite « ciacole » con la parona, con gli avventori. Lo scambio dí bicchiere.
Le osterie, gran bella invension; altro che il telegrafo senza fili!