di Federico Maria Fiorin
Nel discorso pubblico, in particolare con riferimento alle date che hanno segnato la nostra storia Repubblicana (il 25 aprile su tutte), la Resistenza è stata istituzionalizzata come momento fondante della rinascita democratica dell’Italia dopo il 1945, quasi una specie di catarsi del Paese dopo l’adesione spesso acritica, i silenzi e le complicità di larghi strati della società italiana con il regime fascista. Tuttavia questa narrazione non è mai andata oltre, non è riuscita cioè a rappresentare l’idem sentire fondativo dell’intera comunità nazionale. Ce ne rendiamo conto, in particolare in questo periodo storico, nel quale per molti e autorevoli governanti risulta estremamente difficile, se non addirittura impossibile, dichiararsi antifascisti.
Eppure i valori della Resistenza e dell’antifascismo sono presenti nella Costituzione repubblicana, e costantemente rinnovati nella retorica istituzionale del Paese. Ma il dibattito sulla Resistenza continua a dividere le coscienze, al punto che dal 1945 ad oggi, si sono affermate e opposte differenti interpretazioni e letture del biennio 1943-1945, a seconda dei periodi storici e delle convenienze politiche del momento.
Questo che appare sempre più come un dato di fatto (dalla Presidente del Consiglio dei Ministri, al Presidente del Senato, con in mezzo una lunga schiera di ministri e leader politici per i quali pronunciare il termine antifascismo è peggio che bestemmiare), ci pone però di fronte ad un bizzarro paradosso: nonostante l’assetto istituzionale del Paese sia esplicitamente fondato sull’antifascismo quale elemento di senso comune irrinunciabile della nazione, le rappresentazioni e le pratiche di memoria che, a vari livelli, dovrebbero istituzionalizzare questo orizzonte e renderlo un tutt’uno con la coscienza collettiva nazionale, appaiono spesso in conflitto, al punto da rendere quasi indefinibile la natura della memoria di quel passato. Cioè per dirla più esplicitamente, la memoria pubblica dell’antifascismo e della Resistenza è stata, nel tempo, utilizzata come motivo di scontro politico tra parti opposte, piuttosto che come riferimento unitario e insieme unificante dell’Italia repubblicana, al punto che pare lecito interrogarsi se la Resistenza e l’antifascismo siano ancora utili riferimenti per il fondamento dell’etica civile italiana.
Questa lenta ma costante operazione di destrutturazione della memoria storica, e in particolare dei valori della Resistenza, ha avuto inizio con la cosiddetta Seconda repubblica, raggiungendo la sua massima, ma forse non ancora definitiva, espansione con l’attuale governo. Ma se a livello nazionale questo appare ampiamente evidente, non meno significativi sono i vuoti di memoria che sembrano contagiare anche la storia locale.
Tra i tanti, piccoli grandi italiani, che hanno contribuito a scrivere pagine importanti della Resistenza, e di cui quest’anno sono ricorsi gli ottant’anni dalla morte tragica, e senza voler abusare dell’aggettivo, eroica, due sono saldamente legati al territorio vicentino, e dell’alta valle dell’Agno in particolare: Luigi Pierobon e Antonio Giuriolo.